Il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt

Lo ius soli dell'arte, il politicamente corretto e i paradossi del sovranismo artistico

Maurizio Crippa

Il dibattito sulla restituzione delle opere tra furti veri, proprietà contese e leggi diverse

Gli zoroastriani di Zanzibar non si sogneranno mai di chiedere la devoluzione della statua di Freddie Mercury che sta sul lungolago di Montreux, anche se per lo ius soli l’artista di Bohemian Rhapsody era cosa loro. E George Clooney non girerà un sequel di Monuments Men in chiave trumpiana, combattendo per recuperare tutti i graffiti di Basquiat rimasti appesi ai muri di mezzo mondo. Però di questi tempi bizzosi, il sovranismo artistico può provocare strani paradossi.

 

 

Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha usato il medium caro ai populisti per lanciare il suo appello di Capodanno: la Germania ci restituisca il Vaso di fiori di Jan van Huysum, rubato dai nazisti nel 1944. Per dare visibilità alla sua legittima richiesta, si è fatto riprendere mentre appende a Palazzo Pitti (ché da lì fu trafugato, e ora Pitti fa parte del polo museale degli Uffizi), un foglio con scritto “rubato”. E anche a non essere Clooney contro i nazisti, è un gesto forte.

 

Schmidt, tedesco per nazionalità ed europeista per cultura, ha tutte le ragioni formali. Il Vaso è nelle mani di privati tedeschi, più volte hanno tentato di venderlo anche se c’è un fascicolo aperto dalla magistratura italiana per la restituzione. “In un momento in cui si parla molto dell’identità dell’Europa, sarebbe importante sviluppare il discorso sull’Europa non solo a livello economico, ma anche culturale”. Purtroppo la Germania prevede la prescrizione per questo tipo di reato, mentre l’Italia no, le opere d’arte sono inalienabili. Lo stato italiano ha appena vinto una decennale causa contro il Paul Getty Museum di Los Angeles per farsi restituire l’Atleta vittorioso di Lisippo, che fu trafugato al momento del ritrovamento nelle acque di Fano. Peccato che il Getty abbia fatto sapere che non ha nessuna intenzione di farlo. Questione di punti di vista (e regimi giuridici) differenti.

 

La proprietà in base allo ius soli e la restituzione delle opere d’arte trafugate sono temi importanti, complessi non poco, su cui esistono legislazioni internazionali e sovranazionali e differenze di filosofie giuridiche non sempre componibili. Poi si fa sempre anche un certo caos con la questione dei prestiti: oggi tutti i grandi musei sono d’accordo a non fare muovere le opere più importanti, ma il traffico è necessario, se non si vogliono chiudere mostre e gallerie (a Roma è appena arrivato in prestito dall’Ermitage l’Adolescente di Michelangelo: non andremo a vederlo perché ce lo hanno prestato?).

 

Un problema intrecciato per lungo tempo con quelli più squisitamente politici, e politicamente corretti, dei rapporti tra i popoli e dei saccheggi culturali avvenuti in guerra o in epoca coloniale. La Francia è alle prese con un dibattito appassionante e meno maneggevole di un gilet giallo dopo che nel 2017, a Ouagadougou, Macron aveva detto, e non lo aveva mai detto nessun presidente francese: “Voglio che da qui a cinque anni si creino le condizioni per procedere a restituzioni temporanee o definitive del patrimonio africano in Africa”. Per Parigi, è una questione di buoni rapporti interetnici anche domestici, e di una geopolitica indirizzata alla pacifica convivenza. Poi conta anche il mettersi la coscienza in pace. L’Italia aveva già dato ai tempi della stele di Axum, restituita dieci anni fa all’Etiopia non senza polemiche legittimiste.

 

Ma in tempi di sovranismo il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte ha iniziato a solleticare anche il popolino, e si presta a cortocircuiti pericolosi. Ad esempio c’è chi sostiene che con una politica più muscolare l’Italia dovrebbe decidersi a non prestare opere all’estero a paesi che non ci restituiscono le nostre, ed è vero che senza il magazzino italiano metà delle mostre all’estero non esisterebbe. Però che succederebbe alla fine, in un mondo interconnesso e globale, se ognuno si tenesse i suoi quadri chiusi a chiave? Parafrasando Bastiat, dove non passano le opere d’arte, passano gli eserciti. O quantomeno, arriva la Meloni e rivuole la Gioconda.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"