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L’Attila di Davide Livermore alla Scala, l’opera all’epoca della sua spettacolarità tecnica

Maurizio Crippa

La musica a Chailly, ma la scena se la prende il regista

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Milano. Vincitori e vinti del 7 dicembre, la Prima della Scala, che anno dopo anno si sta riguadagnando il rango di evento globale, li decidono nella pratica il pubblico, in teoria la critica, e per tradizione stracittadina il Loggione. Ma parlandone in anticipo, e ancor più da quando, onore al sovrintendente Alexander Pereira, la Scala è diventata anche industria culturale che macina produzioni e risultati – ieri il Corriere ricordava che è l’unico ente lirico italiano con i bilanci in attivo – il successo alla Scala va misurato anche nei termini di saper essere non solo rito, ma spettacolo in sintonia con ciò che oggi è il comune senso (gusto) dello spettacolo. L’opera non è più solo bel canto, esecuzione musicale, o peggio nostalgia. L’Attila di Verdi sarà, facile profezia, l’ennesimo trionfo di Riccardo Chailly, il Maestro e direttore musicale della Scala. La riscoperta del repertorio giovanile di Verdi è, del resto, un suo marchio.

 

Si discuterà (sui giornali, forse) di barbari e nuovi barbari, ma questo è il contorno. Il piatto forte – oltre, va da sé, la musica – è lo spettacolo. E sullo spettacolo il vincitore annunciato, anche se a volte qualcuno il naso lo ha arricciato, è il regista Davide Livermore. Che ha già avuto un clamoroso debutto sul palco milanese lo scorso anno con il Tamerlano di Händel. Bissato in primavera dal Don Pasquale di Donizetti allestito in salsa Dino Risi e sempre diretto da Chailly. Si discuterà forse un po’ dell’ambientazione cripto-novecentesca da lui data all’Attila, tra evocativi “orrori di una terra d’occupazione del secolo scorso”. Non che sia una novità, non lo era neppure nel 2007, ma ci fu più polemica, quando con Daniel Barenboim il grande Patrice Chéreau portò in scena alla Prima un Tristano e Isotta di Wagner ambientato in “epoca all’incirca attuale, personaggi coi tristi cappotti brechtiani” (Paolo Isotta).

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Davide Livermore, torinese a dispetto del cognome, fa da tempo di più, con più gusto delle tecnologie di scena e un’estetica dell’assemblaggio post-tutto, cosa che ha fatto di lui un regista applaudito nel mondo e del suo modo di lavorare un marchio di fabbrica. Già sovrintendente e direttore artistico del Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia (cervello in fuga, diceva di sé) una formazione multiforme come scenografo, costumista, lighting designer, ballerino, sceneggiatore, attore. Convinto sostenitore del “teatro pubblico” (cioè non per pochi). Già consacrato in patria con i Vespri siciliani al Regio di Torino alle celebrazioni per il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, Livermore ha come sua idea guida quella che vada avvicinato il pubblico all’opera, alla bellezza, al teatro. Non uno smarrirsi nel pop, ma usare con creatività tutti gli strumenti a disposizione di una messa in scena non passatista. Comprese le video animazioni. Insomma fare spettacolo in un’epoca abituata al video e alla video arte, alle clip e al digitale, alla contaminazione.

 

Cosa che con lui hanno già fatto – e promettono di fare con Attila, gli scenografi non esattamente filologi di Giò Forma, premiato studio milanese di designer e artisti multidisciplinari, e il video artista Paolo Gep Cucco di D-Wok (già batterista dei Mau Mau). Impiegare le risorse tecnologicamente più avanzate del teatro per creare un grande spettacolo pluri-sensoriale che, del resto, già Verdi sognava ai suoi tempi. Ci sono già i dettagli leggendari, a parte la polemica farlocca per i cavalli in scena. Ci sono le oltre cento le persone utilizzate per costruire il ponte mobile in pietra e ferro – metaforona di terre di passaggio e di distanze. Ci sono le bellezze passate o novecentesche sfigurate dalla violenza degli uomini. Il citazionismo è una delle caratteristiche di Livermore: qui si va da Burri a Raffaello, ma c’è anche Papa Leone che compare in ologramma. C’è il gusto per il pastiche postmoderno, le rovine di Aquileia sono invece di Palmira – uno “spettacolo pieno di messaggi subliminali” – fatto per deliziare il pubblico informato, senza impedire che anche tutti gli altri si divertano. Intelligenza, ammicco immaginifico e postmodernità sono i segreti del successo (di scala internazionale) di Livermore. E’ la differenza tra la regia d’opera paludata e lo spettacolo lirico nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, come direbbe qualcuno. E’ ciò che ha fatto funzionare anche il Don Pasquale (sempre con Giò Forma). Ed è anche il modo migliore per sfruttare il palcoscenico tecno di cui la Scala è oggi dotata. Fare cultura e insieme industria culturale. In questo, Livermore è molto in sintonia con Pereira. Sarà un successo.

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