Giacomo Poretti (foto LaPresse)

La bellezza di mettere al mondo un figlio e il dovere di “fargli un'anima”

Michele Brambilla

Il monologo anticonformista di Giacomo Poretti

Giacomo senza Aldo e senza Giovanni è la più grossa sorpresa politically incorrect che il mondo dello spettacolo ci ha riservato negli ultimi anni. Perché quello è un mondo in cui più ci si dice anticonformisti e “scomodi” e più si è sdraiati, di solito, sul conformismo e sulla comodità del pensiero perbene. Nemmeno Checco Zalone, con le sue battute sui negri sui drogati sui carcerati e sui gay, è davvero un comico che possa dar fastidio, perché il suo è un essere politically incorrect solo gergale, il suo esser greve farà anche ridere, ma non è diverso dai post e dai tweet di tanti ministri di oggi.

 

Giacomo senza Aldo e senza Giovanni – il Trio non si è sciolto, ma si è preso un sabbatico – è invece un comico che veramente mette alla berlina il Potere, ne smaschera il Vuoto, il Nulla di cui è in fondo costituito. Giacomo Poretti sta girando i teatri del nord mettendo in scena “Fare un’anima”, monologo di un’ora e un quarto in cui racconta lo sconvolgimento che ha vissuto una dozzina di anni fa, quando è diventato padre di Emanuele. E intanto si vede che questo Giacomo sa reggere, eccome, il palcoscenico anche da solo. E poi si vede un padre che finalmente parla di un figlio in modo diverso: magari antico, ma diverso. Insomma per Giacomo lo sconvolgimento non è il dover scoprire i pannolini, le notti in bianco, il sentirsi vecchi e tutte quelle banalità che in genere vengono raccontate da chi diventa padre e madre, e sembra che siano i primi al mondo e nella storia a essere diventati padri e madri. Giacomo, intanto, è uno che si sente felice di aver messo al mondo un figlio, adesso che va tanto di moda il “no figli” per procrastinare l’adolescenza fino alla quota cento. Ma poi – ecco davvero l’andare controcorrente – Giacomo si accorge, a neonato appena scodellato dalla moglie, di aver messo al mondo non solo un bambino, ma un Mistero.

E’ un prete, padre Bruno, a instillargli il tarlo. Va a trovare i novelli genitori, Giacomo e Daniela, e non dice loro “oh ma com’è bello”, “è tutto sua madre, ma il nasino è quello di papà”. No, padre Bruno dice loro: “Bene, avete fatto un corpo, adesso fategli un’anima”.

 

Un’anima? Ma chi parla, oggi, dell’anima? E’ una delle parole che stanno per scomparire dal nostro parlare, come la Sisal la Stipel e la Sip, il cinematografo, la corriera, la computisteria, screanzato, zuzzurellone. Dell’anima non si parla perché il culto è tutto per il corpo, il quale non deve ingrassare, non deve invecchiare, non deve ammalarsi e meno che mai morire, al massimo si scompare. Paradosso dei paradossi, l’essere umano visto come solo materia è contemporaneo alla più clamorosa scomparsa della fisicità, cioè a questo nostro mondo dove tutta la nostra identità è impalpabile, si comunica con i social, ci si dichiara innamorati e ci si lascia su Facebook, si governa perfino su Facebook, insomma si mette in piazza (virtuale) tutto ma guardarsi in faccia e stringersi la mano no. Il corpo è tutto in un periodo in cui un algoritmo decide ogni cosa di noi, noi che siamo “profilati” da qualcuno che ci osserva e ci dice di che cosa abbiamo bisogno, cosa dobbiamo comprare, cosa dobbiamo leggere, chi dobbiamo votare. Era meglio prima, ai tempi dei gettoni telefonici? Non del tutto ma un po’ sì, fa capire Giacomo. E in fondo una delle poche cose giuste che dicono i grillini è che non è detto, non è vangelo che ciò che viene dopo sia sempre meglio di ciò che c’era prima (poi loro applicano questo concetto anche a vanvera, ma insomma, il concetto è chiaro).

 

“Adesso dovete dare un’anima a questo bambino”, dice padre Bruno, e il mondo si mette a ridere, perché: che cos’è un’anima? L’ha forse mai vista il radiologo? O il chirurgo in sala operatoria? E allora non c’è, dice il mondo di oggi. Quello che non si vede e non si tocca, non c’è: non può esserci. Ma, dice Giacomo: e l’amicizia? Non si vede, non si tocca: ed esiste. E l’amore? Idem. E la paura? Stessa roba. I sentimenti non si vedono e non si toccano, ma esistono. E se esistesse anche l’anima?

 

Meglio non pensarci. “Meglio oprando obliar senza indagarlo / questo enorme mister dell’universo”, diceva il Carducci. E però… Come si fa a rimuovere il problema? Il monologo di Giacomo ci richiama all’ineluttabilità delle domande ultime. Si ride, naturalmente, perché Giacomo è un comico, e l’ora e un quarto di monologo scivola via che è un piacere. Ma la domanda è seria, è vera. Giacomo ricorda quando, piscinèla, i genitori lo mandavano in colonia due mesi a Pietra Ligure perché i medici dicevano “ma questo bambino qui è linfatico”, che non vuol dire niente, ma serviva per spedirlo al mare. Ricorda quando eravamo meno ricchi e meno lamentosi di oggi. Ma soprattutto Giacomo ci lascia questo, di davvero anticonformista: ci ricorda che non tutto il reale è visibile e tangibile (“L’essenziale è invisibile agli occhi”, Antoine de Saint-Exupéry) e ancor di più ci ricorda che dei nostri figli ci devono stare sì a cuore gli studi – ma certo – la carriera che farà e il saper l’inglese e la salute: ma, soprattutto, ci deve stare a cuore il suo destino.

Destino: altra parola, se ci pensate, scomparsa. Ma cosa viviamo a fare, se non c’è un destino? Se non c’è un’anima?

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