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Che cosa dicono ai gialloverdi i cento anni dell’Aula di Montecitorio

Marianna Rizzini

Venne inaugurata il 20 novembre del 1918. Il palazzo e i suoi demiurghi in un documentario di Sky Arte

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Roma. L’Aula di Montecitorio compie cento anni, evento che, in epoca gialloverde, assume una venatura non soltanto storica (il M5s non è stato estraneo, in passato, a suggestioni distopiche da fine della democrazia rappresentativa). Tanto più che a presiedere la Camera c’è Roberto Fico, il cinque stelle considerato da sempre quello “rispettoso delle istituzioni” e in questo momento quello che fa da punto di riferimento sommerso alla dissidenza interna al movimento, specie rispetto all’applicazione del programma con sbilanciamento leghista.

 

E ieri Roberto Fico, con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dava il via alle celebrazioni in nome della centralità del Parlamento (“coinvolgere le persone nella vita delle istituzioni è la chiave per ridurre il senso di distanza e la crisi di fiducia dei cittadini verso la politica”, diceva), centralità che per una parte della base a cinque stelle è stata sacrificata, negli ultimi mesi, sul piatto dell’accordo con la Lega (timore di ricorso eccessivo a decreti). Così, puntando sul “nulla è scontato”, tantomeno la democrazia, Fico si soffermava sul senso del compleanno dell’Aula, inaugurata il 20 novembre del 1918, alla fine della Prima guerra mondiale.

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La data è simbolica – ingresso in un mondo nuovo che doveva essere di pace, ma che presto diventerà anticamera di un altro conflitto – come simbolici sono stati, a inizio Novecento, i lavori nel Palazzo per antonomasia, luogo molto misterioso da un lato e molto esposto dall’altro. Un palazzo con una storia complessa, raccontata dal documentario “L’Aula di Montecitorio, un secolo tra arte e storia” (produzione di Sky Arte realizzata da Tiwi), proiettato ieri in anteprima alla Camera, mentre fuori il governo si trovava sul filo del bisticcio sugli inceneritori. Una storia con un protagonista: Ernesto Basile, architetto siciliano cosmopolita, figlio del noto Giovan Battista (Teatro Massimo di Palermo), ingaggiato per chiara fama e chiamata diretta al termine di una gara indetta proprio per trovare l’uomo adatto a non snaturare quello che nel Palazzo veniva dal Seicento di Gian Lorenzo Bernini, ma al tempo stesso a proiettarlo nel Novecento. Montecitorio (imponente nelle riprese con drone nel film) appare a Basile con tutto il suo passato: la piazza dove gli antichi romani “facevano i nomi” nei comizi pre-elettorali; il “corridoio dei passi perduti”, detto anche Transatlantico per l’impianto architettonico da nave in balìa dei flutti; le altre aule, tra cui quella della Lupa, dove i deputati “aventiniani” si riunirono dopo il delitto Matteotti.

 

Che cos’è Montecitorio? si domandano nel film storici, artisti e architetti, sempre finendo per ancorare il Palazzo “all’identità” dell’Italia, prima e dopo l’unità. E che cosa lega, tra una sala e l’altra del palazzo, il barocco al liberty, intesi come stili ma anche passaggi “d’identità” per il paese e per i suoi abitanti? Mentre sullo schermo scorrono le immagini del Fregio di Artistide Sartorio (quello che sovrasta l’Aula), e si apprende come l’architetto Basile fosse arrivato a sperimentare sul campo “la riforma modernista” e come, decenni prima, Giovanni Giolitti avesse dedicato molta attenzione alla futura “casa degli italiani” dove nel secolo successivo si sarebbe celebrata la nascita della Repubblica, il presente fa capolino: meno solennemente, là fuori, si fanno i conti sul decreto sicurezza.

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