Arte e gallerie ai tempi di Instagram

Francesco Stocchi

Mi si nota di più con i pixel? I musei, in primis quelli statunitensi, si rincorrono per essere “Instagram-friendly”. Cosa funziona e cosa no, a New York

Si fa un gran parlare di Instagram, il social media che meglio di altri offre felicità esibita, diffuso senso di insoddisfazione del nostro tempo. Si discute dei suoi effetti dirompenti sulla nostra vita sociale ovviamente ma anche sulla nostra psiche e sul nostro modo, sempre più contraddittorio, di gestire il concetto di “originale”. Forte della sua lingua franca che tutto comunica senza dire, l’immagine dà la possibilità di esprimere tutto e il suo contrario, diventando strumento idoneo al relativismo che impera trionfante sulle nostre teste. Fatti e opinioni si sovrappongono amabilmente, e se aggiungiamo il voyerismo insulso (perché esposto e non catturato) che si annida nella maggioranza degli utenti, la distinzione tra la realtà virtuale e il reale sembra assottigliarsi in misura proporzionale al proliferare di immagini scambiate. Non dico di abbracciare l’abile allarmismo di Elon Musk, ma neanche che sarà una questione da delegare ai nipoti. Continuamente leggo opinioni in merito a quanto Instagram si intrometta nelle nostre vite, esibendo il privato in complicità con gli utenti fino ad annullare la sfera pubblica, spacciando quella “tirannia della gioia” (©Annalena) che non fa che immalinconirmi maggiormente. Sento invece meno parlare dell’uso professionale di Instagram, dove ci si sposta dall’asse privato-pubblico a quello scientificamente icastico desiderio-profitto. Musei, in primis quelli statunitensi, si rincorrono per essere “Instagram-friendly”, subissati dal clamore intorno alle “Infinity rooms” dell’artista Yoiu Kusama. Ambienti caleidoscopici fatti di giochi di specchi, motivi a pois e simboli fallici in chiave pop anni Sessanta che inducono o forse obbligano moralmente a fotografarci: più interesse ci sarà a condividere un’immagine con chi è fuori dal museo, più si genereranno file per accedervi. E’ questa la pubblicità dal basso che magicamente svuota di contenuto tutto ciò che tocca (il nostro governo sembra esperto in materia). Sensibile all’influenza che tale sistema ha sugli artisti e su le loro opere, ho seguito conferenze, dato conferenze, organizzato mostre sugli effetti che per esempio il selfie portava all’esperienza con un’opera d’arte, privandola di profondità e di durata. Nessun dramma, solo un po’ di preoccupazione nel constatare gli effetti di omogeneizzazione della creazione, l’appiattimento verso una zona neutrale, innocua, perfino spensierata mentre assistiamo ad una metamorfosi dalla concezione del museo come deposito di sapere a la sua deriva consumistica.

 

Instagram diviene strumento per la notificazione del bidone di turno. Far bastare l’immagine lì dove l’opera predilige i codici digitali

“La maggior parte della gente vedrà l’opera attraverso il telefono, lo schermo è lo spazio che conta. Ormai si vende al 70 per cento online”

Pensieri in libertà finché non capita di essere a New York per una manciata di giorni, di sentirsi sufficientemente curiosi e investiti di senso di dovere da voler visitare il maggior numero possibile di gallerie che inaugurano la stagione. La scelta è irrinunciabilmente personale, non si va in cerca ma non si esclude un medium specifico e certamente non si bada alle origini culturali dell’autore in questione, figuriamoci a quelle di genere. “Io non sono da considerare né donna, né uomo, ma semplicemente artista”, rispose così, declinando un appetitoso invito a una mostra di sole donne, Dorothea Tanning. Posizioni impopolari oggi, fin troppo visionarie per gli odierni burocrati del politicamente corretto, ma lasciamo la questione a un’altra volta. Il luogo è Chelsea, retail mondiale dell’arte contemporanea. L’andamento che ordina la serie di visite è irregolare, sostenuto da una felice disposizione d’animo, i tempi di marcia, le attese, i ritorni, i commenti, le letture testuali, le pause si rivelano di ordine talmente personale da sentirsi disinvolti nell’uscire e entrare in quel mare di gallerie private accatastate l’una all’altra. Alla quinta, sesta mostra mi fermo, guardo il mio compagno di visite (autoctono) cercando uno sguardo complice, una spiegazione alla pochezza di quanto visito finora. Sono già i resti, gli chiedo, quelli di inizio stagione? Si incontra un gallerista dall’Italia che forse, trovandosi in una simile condizione di imbarazzo, confida che le scelte di esporre tale artista sono dettate dal bisogno di vendere sempre e comunque per poter arrivare al mese successivo, “non è mica come da noi che puoi stare fermo per mesi” (una cosa comunque ammirevole dei galleristi statunitensi rispetto a quelli europei, è la loro propensione al vivere in bilico: se non si vende per un mese, si chiude, mostrando disposizione verso il rischio, ambizione e necessità di condotte professionali ma portando anche a forzare certe scelte in nome del mercato. Siamo lontani dall’approccio militante-romantico degli artisti italiani negli anni Sessanta, esemplificato dal pensiero di Giulio Carlo Argan: “Nell’arte, quando io sento parlare di denaro, prenderei una pistola e sparerei”). In uno sforzo di esibito cinismo, rispondo che la sorpresa non sta tanto nel vedere che tali opere vengano esposte, quanto nel notare come ci siano collezionisti disposti ad acquistarle. Ma quali sono allora queste opere d’arte che mettono d’accordo sulla loro marginalità ma che occupano ampi spazi di gallerie considerate e influenti? Il 90 per cento degli artisti sono statunitensi, dalle fotografie di piccoli oggetti quotidiani che appaiono giganteschi edifici, esibite accanto all’oggetto stesso (tanto per eliminare ogni possibile mistero) di B.Wurtz, alla felicitazione dell’africanità in chiave etno-chic di Simone Leigh, fino a altri che sembrano più preoccupati di come le loro opere possano apparire sui nostri schermi che di risolvere specifici problemi attraverso il lavoro. Un giovane pittore mi confessò, felice e determinato, di aver trovato un blu per la sua tavolozza che forse non era un granché in sé, ma che magicamente si esaltava attraverso lo schermo. “La maggior parte della gente vedrà l’opera attraverso il telefono o il computer, lo schermo è lo spazio che conta. La mia galleria ormai vende al 70 per cento online”. Opere se viste dal vivo sembrano appunto immagini piatte e fragili, lucide però prive di pazienza e neanche impazientemente creative. Sembrano arte ma private della loro fisicità, di presenza e convinzione personali. Assistere a ciò rende molto più complesso il frequente esercizio dissuasivo nel rispondere a chi nei confronti dell’arte contemporanea è letteralmente allergico, quando si sostiene che la potrebbe fare chiunque e che, forte di un mercato carico di steroidi, non rappresenta altro che una macchina speculativa, nel migliore dei casi (di riciclaggio negli altri).

 

Un poco affranto, deluso e arrabbiato, in cerca di qualcosa che mi facesse virare stato d’animo, inizio a pensare che Instagram sarebbe potuto essere di ottimo servizio. Scandagliare la proposta di opere per tutti coloro che sono altrove e non pensano all’hic et nunc, ormai abituati a esperire l’arte da casa attraverso lo schermo, stile consegna cena a domicilio. Instagram utile per proteggerci dalle tempeste della vacuità, conseguenza diretta di un mercato talmente espansivo da diventare tentacolare, accomodante perché risponde a ogni esigenza e principale causa della clonazione dell’odierno artista paradigmatico. Lo studio di stili e l’individuazione di specifiche influenze sembra divenire esercizio sempre più inutile in una marea di artisti neutri, sopraffatti dalla pretesa di essere unici. Qui è il paradosso e qui Instagram diviene strumento proficuo per la notificazione del bidone di turno. Far bastare l’immagine lì dove l’opera predilige i codici del pixel. La visita dello spazio d’arte sembra divenuta strumento accessorio alla creazione di nuove immagini, ma è solo questione di tempo in questo periodo di confusa avanguardia virtuale. L’invenzione della fotografia non sovrastò la pittura, liberandola piuttosto dalla sua necessità di fedele rappresentazione del mondo esteriore.

 

Entro nell’ultimo spazio e vedo qualcosa di diverso. Una mostra, articolata e coraggiosa di Fausto Melotti, artista che armonizza l’etereo al terreno, come quando la musica diviene scultura. Tra materia che si fa forma e metafisica dello spazio (Le Città invisibili…). In quanto artista italiano introdotto a New York, Melotti viene inserito sotto la chiave sempre seducente del “made in Italy” quindi lo accompagnano Burri, Calvino, Fontana, De Chirico… Rincuorato dalla visione di opere a me inedite e sorpreso dalla vampata esterofila statunitense, mi si avvicina un conoscente yankee che con vigorosa pacca sulla spalla mi urla, “ti piace Melotti, il Calder italiano”?

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