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I mostri di Berto

Michele Masneri

L’autore del “Male oscuro” scappava da Roma, dalla società letteraria, dalla paura di scrivere. Il rifugio al mare e i ricordi della figlia Antonia

Scendi dall’aereo al “Lamezia Terme International Airport” che sembra un’installazione brutalista di qualche biennale almeno del dissenso, percorri un centinaio di chilometri di non finito calabrese – quella tipizzazione architettonica che alligna solo qui, la soprelevazione inutile, l’orgoglio verticale laterizio, e tanto alluminio anodizzato, balconi rotti, muretti sbrecciati, niente in asse con niente. “La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti”, scriveva Giuseppe Berto, lo scrittore veneto morto quarant’anni fa, che in Calabria si era rifugiato. “Invece i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato – anche gli alberi, le case, il paesaggio – con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e Busto Arsizio non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio”. Berto era una celebrità letteraria di un’Italia oggi lontana, che a Capo Vaticano aveva preso casa e scritto il suo libro più famoso, Il male oscuro, un libro abbastanza unico: come un Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda, ma scritto da Philip Roth e con dentro la Dolce Vita.

 

Scriveva sceneggiature e critiche cinematografiche, faceva romanzi a volte commerciali, da cui erano tratti film di massimo successo

La casa e i quattro ettari di scogli e fichi d’India a Capo Vaticano. “Scendeva in spiaggia all’ora di pranzo, tuffarsi era la sua passione”

Berto scappava da Roma: dalle cattiverie gratuite, gli abusi di potere, gli appuntamenti a cui nessuno va mai; i produttori, le telefonate di improperi gratuiti, cioè quello che succede da Marziale in poi a chi sbarca a Roma con qualche sensibilità e ambizione letteraria: e finisce immancabilmente dall’analista. Però la vita letteraria romana “in presa diretta” era sempre stata raccontata dal tavolino, mai dal lettino (di psicanalista). Invece Il male oscuro è un flussone di coscienza e di sogni: c’è quello “della libreria Rossetti” (una libreria di via Veneto, ed è la via Veneto che fa da sfondo alla Dolce Vita, quella di Flaiano, degli appunti di via Veneto, del poeta Cardarelli in cappottone, di Fellini che viene a fare i sopralluoghi). Nel sogno della libreria Rossetti c’è un signore che porta in mano un quadro che mostra a tutti, tranne al povero Narratore. Lo mostra a tutti gli intellettuali, i “padreterni di quella trapassata epoca intellettuale”, scrive Berto, “coincidente col fascismo prima e subito dopo con l’antifascismo, ed erano gente magari senza volerlo boriosa tanto che non si sapeva mai se salutarli o no per non correre il rischio di salutare a vuoto, alle volte incontrandoli si aveva l’impressione di non essere visti per niente”. Sono loro, sono i mostri di Berto, sono la società letteraria-cinematografara di quell’epoca (ma nulla è cambiato): c’è il produttore, tormentone di quegli anni (il conterraneo di Berto, Sonego, sceneggiatore dei migliori film di Alberto Sordi, lo metteva in tutti i suoi film: c’è nella Vita difficile, e finirà in piscina schiaffeggiato da Sordi; c’è nel Vedovo, tutti erano ricalcati sulla figura del “cumenda” che tutto poteva; sarebbe Angelo Rizzoli, “il cumenda” per eccellenza, il produttore della Dolce vita, l’editore del Corriere, l’armatore dei due yacht, quello “per i simpatici” e quello per gli “antipatici”). Nel Male oscuro il produttore convoca lo scrittore a Roma all’hotel Excelsior, con cinquanta cartelle di sceneggiatura, e poi naturalmente dopo ore di attesa non si presenta. Lo scrittore ha appena avuto una figlia, e non ha i soldi per pagare la clinica, e il commendatore gli dice: “Ah sí me n’ero dimenticato, i figli sono l’unica consolazione della vita la cosa piú importante del mondo”, e poi gli impone una sua trama delirante di un film padronale: “Un soggetto tutto suo che si svolge nell’aldilà e quindi ci vuole un dialogo delicato come soltanto io so fare, e io dico Commendatore dipende da quanto mi paga e lui dice ci metteremo d’accordo anche questa volta come sempre ci siamo messi d’accordo da buoni amici, e mi congeda da gran signore dopo avermi messo in mano i due fogli da diecimila così posso comprare un regalino alla mia signora dice”.

 

Berto scriveva sceneggiature e critiche cinematografiche, faceva romanzi a volte commerciali, come Oh, Serafina, da cui erano tratti film di massimo successo (come Anonimo veneziano), radicalizzando così ancor più l’odio del “giro” ufficiale che magari non vendeva ma era impegnato assai. La società letteraria lo tiene ai margini; c’è “la mafia di Moravia” come dice Berto, che lo tormenta anche nei sogni. Nella realtà con la Maraini finiscono pure in tribunale: lei nel 1962 vince il premio Formentor, battendo Luciano Bianciardi con La vita agra. Berto denuncia il “capomafia” Moravia, che aveva sponsorizzato quella vittoria: tutti di nascosto danno ragione a Berto, ma in pratica viene emessa la fatwa, e quando due anni dopo esce Il male oscuro, nonostante il successo e i premi, dall’ortodossia arrivano solo sfottò (ci fu una coda anche giudiziaria: la Maraini gli dà dello “stronzo”, pubblicamente, lui la querela, lei viene assolta). Più grave, i critici lo definiscono “neorealista”, un affronto che non si può portare in tribunale. Per lui i neorealisti erano scrittori che “impetuosamente lavorano su una realtà che tanto li innamorava, mentre questa realtà cambiava senza che loro se ne accorgessero”. A Vittorini preferisce Carlo Lucentini (come biasimarlo).

 

“Mi venne la nevrosi”, dice il Narratore. One of us. “La nevrosi è una malattia basata sulla paura. Paura di tutto, della morte, della pazzia, della gente, della solitudine. Per uno scrittore è, particolarmente, paura di scrivere. Nella nostra storia abbiamo due esempi di scrittori nevrotici: Italo Svevo che per oltre vent’anni non riuscì a scrivere nulla, e Gadda, che imposta i suoi rari romanzi su trame robuste, addirittura con un bel delitto dentro, e inevitabilmente si perde nel nulla”. Il narratore del Male oscuro ha due belle nevrosi, quella del padre, uno dei più micidiali papà della letteratura italiana (un ex carabiniere in congedo che invece che emigrare e far studiare i figli all’estero come il papà di Marchionne, qui si dedica a un tragico orto cui si dedica tra bestemmie rancorose, un po’ come il padre di Gadda, che aveva dissipato le sostanze vitali nella villa in Brianza).

 

E poi la nevrosi del non scrivere. Ce l’hanno tutti e due, lo scrittore e il personaggio del Male oscuro. Tutti e due iniziano l’analisi. Berto non ha molta fiducia nel suo strizza, ma poi incappa in quest’uomo “straordinariamente buono, intelligente, comprensivo” che lo aiuta a ricominciare a scrivere. Prima racconti, poi un romanzo, e soprattutto non dev’essere la ripresa di uno di quelli cominciati, ma una cosa completamente nuova. L’importante è non fermarsi, andare avanti. Così si chiude a Capo Vaticano e in due mesi scrive il libro, il libro forse con meno interpunzioni della letteratura italiana – e lo stile, il flusso di coscienza, da una parte serve per imitare una seduta psicanalitica, dall’altra davvero era un modo per non fermarsi, perché se si ferma è perduto, non scriverà più niente.

 

C’è “la mafia di Moravia” che lo tormenta anche nei sogni. “Mi venne la nevrosi”, dice il Narratore. La paura di tutto

Lo stile, il flusso di coscienza, da una parte serve per imitare una seduta psicanalitica, dall’altra era davvero un modo per non fermarsi

La vita di Berto in realtà doveva essere molto meno agra di quella narrata nel Male oscuro, che vinse tanti premi (Viareggio, Campiello, Bancarella) e fu il caso letterario del 1964. Di sicuro gli cambiò la vita, come racconta al Foglio la figlia Antonia, che ogni anno raccoglie registi e scrittori nelle case che il padre costruì a Capo Vaticano. Le case Berto sono immerse in un bosco e danno su una scogliera che sembra Big Sur (Berto come Don Draper), ma qui l’acqua è calda. “Mio padre arrivò nei primi anni Cinquanta”, dice Antonia Berto al Foglio. “Lui amava il sud, aveva fatto il servizio militare in Sicilia. Con mia madre scesero dalla costiera amalfitana in macchina per cercare un posto, ma non doveva essere un’isola. Lui non poteva infatti prendere la nave, né il treno né l’aereo”. Stava quindi così male nei momenti della nevrosi peggiore. “Anche a casa, alla Balduina, propose al portiere di fare cambio del nostro appartamento al quarto piano col suo al piano terra”. Soffriva l’altezza. “Negli anni più duri non riusciva ad alzarsi dal letto per gli attacchi di angoscia”. Alla fatale Balduina erano vicini di casa di Gadda (si stimavano, e il Male oscuro è una citazione della Cognizione del dolore, sempre nevrosi e sempre famiglie disfunzionali settentrionali). “Con Gadda erano molto amici” dice Antonia Berto. “Mi ricordo mia madre, aveva molti riguardi per questo signore diabetico, che non poteva prendere lo zucchero, ma poi lo vedevo che si riempiva le tasche di cioccolatini, a casa nostra”. Dalla Balduina a Capo Vaticano: “Alla stazione di Tropea un ragazzo gli disse: se vuole una casa al sud deve andare a Capo Vaticano, così vennero qua. Mio padre vide un piccolo terreno, ma il contadino gli disse che se lo voleva doveva comprarsi tutto: quattro ettari di scogli e fichi d’india, non c’era nient’altro. Vendeva perché aveva una figlia che si sposava e doveva farle la dote”.

 

La dote di questa ragazza ha salvato un pezzo di costa perché oggi le case Berto nel bosco hanno come confine il mare, il faro della Marina militare, e la strada, e hanno impedito che “tutto intorno a noi ci facessero un villaggio turistico”. All’epoca non c’era nulla, solo una distesa di fichi d’India. I primi tempi andavano in tenda, come nella foto che li ritrae. Antonia Berto ha fatto anche degli anni a scuola qui. “Le elementari, ed ero a scuola con questa bambina che faceva il corredo per il matrimonio di quella ragazza, e qui ho imparato a ricamare. Si chiamava Micia”. Saranno stati belli quegli anni. “Conoscevamo tutti i ragazzini. Nelle loro case c’erano i fotoromanzi, magnifici, che a casa nostra erano proibiti”. “Abbiamo anche assistito alla fuitina di una di queste ragazze: era innamorata, ma il padre non voleva. Nella notte il suo fidanzato è venuta a prenderla, lei è saltata dalla finestra, poi son stati via due tre giorni e si son sposati di pomeriggio, con una cerimonia semplice”.

 

“Quando è uscito Il male oscuro mio padre ha cominciato a non esserci più. Le donne gli facevano tutte la corte”, dice Antonia, e le foto testimoniano di un uomo belloccio, in smoking, con aria dolentemente elegante. Con Anna Magnani. I premi. “Al Viareggio mi portò. Ricordo che c’era Carla Fracci che ballava”. “Al Campiello invece non sono andata e l’ho visto in tv da dei cugini. Però lui mi disse: ‘Guarda la televisione; quando mi toccherò il naso vorrà dire che starò pensando a te”. Viaggi: “Andarono a New York invitati da Angelo Rizzoli che apriva la sede americana della casa editrice. “Era una persona favolosa, amava molto mia madre”, dice Antonia Berto. Il produttore malefico del libro dunque non era lui. “No, era Peppino Amato”, storico tycoon degli anni Cinquanta-Sessanta. “Quando andarono a New York avevo paura che cadesse l’aereo, così mi presero un cane, nel caso fossi rimasta orfana, il mio primo cocker spaniel”. Con un altro cocker spaniel Antonia Berto partirà per l’America nel 1979. “Era morto mio padre da poco, io non volevo stare più in Italia”. Parte col cocker e l’amico Paolo, finiscono a New York, e poi a Key West, in Florida. Che nel frattempo era diventata una patria fricchettona-chic di gay e intellettuali. Aprono un primo ristorante, poi un secondo e un terzo. Camerieri che vanno ad aprire limousine, a cena viene spesso Tennessee Williams che abitava lì, e “poi si andava a casa, Philip suonava la chitarra, e capitava Leonard Bernstein”, dice Antonia, che insieme al marito americano chef ancora oggi sfama la tribù di scrittori e registi che d’estate arrivano a casa Berto. Per un decennio l’Antonia’s di Key West è stato il miglio ristorante della Florida. “Cucinare mi è sempre piaciuto molto”, dice lei oggi. Nel frattempo i ristoranti sono evaporati, “abbiamo pensato bene di investire nell’immobiliare, compravamo e ristrutturavamo, poi è arrivata la crisi dei subprime”. Adesso passano l’inverno in America e l’estate qui tra questi boschi. La casa in cui scrisse Il male oscuro si chiama il Cucinone ed è la prima che costruì Berto; le costruiva con le sue mani, andava in giro a fotografare le case tipiche locali, e poi con qualche aiuto tirava su i muri da solo, senza architetti. “Fare il bagno non gli piaceva”, dice la figlia, “e dedicava tutto il suo tempo a quella costruzione. Scendeva in spiaggia solo all’ora di pranzo, si tuffava e ritornava su. Tuffarsi era la sua passione. E siccome a me non piaceva, e pretendeva che lo facessi lo stesso, mi pagava. Mi pagava per tuffarmi”.

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