Giovanni Guareschi

Un candido reazionario

Michele Brambilla

Cinquant’anni fa moriva Giovannino Guareschi. L’italiano più tradotto all’estero andò quasi solo al cimitero

La mattina del 22 luglio 1968, un lunedì di mezzo secolo fa, Giovannino Guareschi si svegliò nella cameretta della sua piccola casa di Cervia che aveva acquistato per le vacanze, si alzò dal letto, andò ad aprire la finestra, scambiò due chiacchiere con una dirimpettaia che aveva anch’essa appena aperto la finestra, i due si scambiarono il buongiorno, anzi Giovannino per la precisione disse “è una bella giornata”, poi si girò per tornare verso il suo letto e cadde a terra. Poco dopo la figlia Carlotta, entrando in camera, lo trovò lì, ormai senza vita, in ginocchio davanti a un’immagine della Madonna con la quale Giovannino era solito parlare e qualche volta pure discutere, come faceva con il crocifisso la più famosa delle sue creature, don Camillo. Un infarto – il secondo in pochi anni – aveva messo fine prematuramente, a soli sessant’anni d’età, a un uomo che aveva saputo essere grande giornalista, fondatore di settimanali di battaglia, vignettista, scrittore, sceneggiatore e insomma cantore di un Mondo Piccolo che ancora oggi affascina generazioni e generazioni di ogni angolo della Terra.

 

Tra i due infarti, Guareschi non si era curato un granché. Anzi. Non aveva mai smesso di fumare, né di lavorare fino a notte fonda, e per lenire i bruciori di stomaco procuratigli da un’ulcera alternava, al bicabornato, il Lambrusco. Aveva avuto troppi dispiaceri per restare attaccato alla vita. La sua Italia lo aveva addirittura messo in galera (quattordici mesi!) per diffamazione nei confronti di Alcide De Gasperi: insomma condannato, di fatto, dalla Dc; proprio lui che nel ‘48 aveva inventato contro il Fronte Popolare il formidabile slogan “In cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”.

 

Un infarto a 60 anni. Era stato grande giornalista, fondatore di settimanali di battaglia, vignettista, scrittore, sceneggiatore

Entrato in collisione con il Palazzo per quella storiaccia con De Gasperi, Giovannino era stato poi emarginato, espulso dal novero delle grandi firme, marginalizzato in provincia. Gli avevano tolto anche la sua creatura, il Candido, e nessuno voleva più ristampare i suoi libri. Curioso destino. Guareschi era allora – ed è a tutt’oggi – lo scrittore italiano del Novecento più tradotto all’estero, ma nessuno è profeta in patria, e tantomeno lo poteva essere “un reazionario”, come egli si definiva, in quell’estate del millenovecentosessantotto. Al camposanto Guareschi ci andò quasi solo. Sotto una pioggia che pareva novembre, la sua bara fu accompagnata al piccolo cimitero di Roncole Verdi – a pochi metri dalla casa natale del Maestro – da un piccolo corteo guidato dai figlioli Alberto e Carlotta (la moglie Ennia non se la sentì), seguiti dal direttore della Gazzetta di Parma Baldassarre Molossi, da Giovanni Mosca e Carlo Manzoni, da un quasi nascosto Enzo Ferrari, dagli amici del paese e da nessun politico, eccezion fatta per il cavalier Angelo Tonna, una specie di Peppone visto che era il sindaco socialista di Fontanelle di Roccabianca, il paese della Bassa dove Guareschi era nato nel 1908 il primo maggio, festa dei lavoratori.

 

Chi volesse andare oggi a far visita alla tomba di Guareschi, ritroverebbe attorno a sé, quasi intatta, proprio quella Bassa che fu la vera genitrice dei racconti del Mondo Piccolo. “Io non ho inventato niente”, diceva Guareschi, “ho solo raccontato i luoghi e i personaggi che vedo, la mia è un’invenzione del vero”. Davvero niente o quasi pare cambiato, di quel mondo. Uscendo dall’autostrada a Fidenza, e poi seguendo i cartelli per Soragna e Busseto, ci si immerge in una pianura che pare infinita, si percorrono strette strade con piccole rogge ai lati, si costeggiano porcilaie che paiono monumenti al Re

Pubblicò alcune lettere attribuite a De Gasperi, fece più di un anno di carcere. Il mondo del giornalismo gli voltò le spalle

Suino (“Se nascessi maiale”, diceva Guareschi, “vorrei nascere nella Bassa”), ci si accosta agli argini innalzati per contenere quel Grande Fiume che fa sempre paura come nella grande alluvione del 1951, ci si fa tentare da trattorie che espongono il cartello “salumi e torta fritta”, si scorgono personaggi non troppo dissimili dallo Smilzo, dal Brusco, dal Nero, dalla vecchia maestra che chiede di essere sepolta – come fece Guareschi – avvolta in una bandiera monarchica; infine si si sfila accanto a vecchie chiesette di campagna dalle quali non ci si stupirebbe nel veder uscire, all’improvviso, un vecchio parroco con la talare lunga e due manone grosse così. Il traguardo porta proprio a una di queste chiesette, quando appare il cartello “Roncole Verdi”. E’ la chiesa di San Michele, accanto al cimitero. I funerali di Guareschi furono celebrati lì, e l’organo che usarono per la messa è lo stesso che servì al bambino Giuseppe Verdi per imparar la musica. Se Peppone fu ispirato a un personaggio realeGiovanni Faraboli, un sindacalista di San Secondo Parmense, fondatore della Lega dei Contadini – don Camillo è invece l’insieme di tanti parroci della Bassa di un tempo, pretoni abituati a usar le mani per benedire e, quando occorreva, i piedi per menar fendenti nelle terga.

 

E proprio di una sciagurata pedata di un prete si fa ancora memoria qui vicino, a Madonna dei Prati, un’altra frazione dell’immenso comune di Busseto. C’è infatti, a Madonna dei Prati, un santuario mariano caro alla gente semplice della Bassa, e caro anche a Guareschi, che vi andava ad accendere ceri nei momenti più difficili. Qui c’era, all’inizio dell’Ottocento, un cappellano di nome don Giacomo Masini. Fu lui a mollare la famigerata pedata cui facevamo cenno: una pedata che tante nefaste conseguenze produsse. Destinatario ne fu infatti il piccolo Giuseppe Verdi, il quale a Madonna dei Prati andava a servir messa. Come si legge in una cronaca dell’epoca, il futuro Maestro “inveì contro un prete (don Masini appunto, ndr) che lo aveva strapazzato durante la funzione perché, invece di assolvere alle sue mansioni di chierichetto, stava assorto ad ascoltare don Baistrocchi che suonava l’organo”. Proseguiva l’anonimo cronista: “Il celebrante chiese per due ben volte al ragazzo che gli allungasse le ampolline, ma senza risposta. Allora si spazientì e (…) con una robusta pedata mandò ruzzoloni giù per i gradini dell’altare il nostro Beppino, che batté il capo e svenne. (…) Una volta ripresi i sensi, non si trattenne e lanciò l’anatema contro il sacerdote: Dio t’manda na saiètta (Dio ti mandi una saetta)”.

 

Chi andasse oggi alla tomba di Guareschi, ritroverebbe attorno a sé quella Bassa che fu la vera genitrice dei racconti del Mondo Piccolo

Poco tempo dopo, il 14 settembre del 1828, durante la festa patronale, la maledizione del piccolo Verdi si compì. Una saetta davvero si abbatté sul santuario, lasciando sei morti. Quel che accadde lo leggiamo su una cronaca dell’epoca, intitolata “Avvenimenti funesti” e conservata nel registro della chiesa: “Destatosi fiero temporale mentre verso le tre pomeridiane si incominciavano i Vesperi, un fulmine caduto (…) uccise quattro preti e due scolari. Restava nel mezzo il Prevosto di Roncole , ed è rimasto illeso. A mano destra, e presso di lui Don Pietro Orzi, Arciprete di Frescarolo di anni sessanta, rimasto morto, era seduto, ed in aspetto di uomo che mediti. Presso di questo, e dalla parte del Vangelo, steso per terra morto, ma senza nessun segno Don Luigi Menegalli, Arciprete di Semoriva di anni cinquanta; vicino a questo disteso pure per terra e morto, senza alterazione del corpo, Francesco Luzzi d’anni trentasei circa, sarto di professione, di Santa Croce di Zibello, senza segni esteriori. Seduto poi quasi presso la portiera che mette nel Santuario, morto, ma con sembianza d’uomo che placidamente dormisse, Bianchi Gaetano, nubile, sarto di professione, d’anni venticinque, delle Roncole. Dalla parte dell’Epistola (…) steso per terra, annerito (…) Don Bartolomeo Orioli, Arciprete di Spigarolo d’anni quaranta. Presso questo, morto, ma seduto, ed in aspetto d’uomo che soffra grandi dolori, e senza nessuna ferita stava il cadavere di Don Giacomo Masini, Cappellano di Roncole, d’anni cinquanta”.

 

Di queste storie e di questi personaggi era fatto il Mondo Piccolo di Guareschi. Storie matte, figlie d’una terra in cui d’estate il sole batte sulle tempie come un martello e d’inverno la nebbia avvolge tutto in un mistero. Guareschi diventò Guareschi a Milano: e guai se non fosse emigrato, a un certo punto, a Milano. Non sarebbe entrato nella squadra del Bertoldo, il settimanale satirico e perfino un po’ frondista del fascismo. Non avrebbe scritto sul Corriere della Sera. Non avrebbe incontrato Angelo Rizzoli e quindi non avrebbe fondato il Candido. Ma a Milano Guareschi portò l’anima e il grande cuore della Bassa.

 

Il ritorno a casa dopo la guerra e la prigionia in Germania coincise con il periodo più lieto e fecondo. Ma il successo fu di breve durata

Ne portò anche il ribellismo e la follia. Quando arrivò l’8 settembre, Guareschi aveva 35 anni ed era troppo vecchio per essere richiamato alle armi. Ma corse ad arruolarsi per continuare a combattere, con l’esercito monarchico, la guerra dell’Italia, dicendo che se il Re aveva tradito la Patria, lui rimaneva fedele al Re perché quando aveva fatto il soldato gli aveva giurato fedeltà e la parola data va mantenuta. I tedeschi lo arrestarono il giorno dopo, 9 settembre, e – rifiutandosi lui di combattere per la Repubblica Sociale – lo mandarono in un campo di concentramento in Germania. Dal lager Giovannino tornò che pesava quaranta chili, ma non vinto: “Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, con un passato e un avvenire”.

 

Il suo ritorno a casa avrebbe coinciso con il periodo più lieto e fecondo. Il Candido, la saga del Mondo Piccolo, i film con Gino Cervi e Fernandel. “Nessuno”, diceva Montanelli, “ha saputo raccontare come Guareschi l’Italia del dopoguerra”. Per Giovannino arrivò il successo: che fu breve tuttavia. Nel ‘54 Guareschi pubblicò sul Candido, in totale buona fede, alcune lettere attribuite ad Alcide De Gasperi. Dal Vaticano, durante la guerra il futuro leader democristiano avrebbe chiesto agli Alleati di bombardare Roma, per esasperare i romani e spingerli all’insurrezione contro i tedeschi. Le lettere furono dichiarate false dal tribunale e Guareschi venne condannato. Sentendosi pugnalato nella schiena dal suo paese, Giovannino non volle fare appello, né chiedere la grazia, ed entrò nel carcere San Francesco di Parma. Sommò, alla condanna per le lettere, un’altra condanna che aveva subito quale direttore responsabile del Candido per una vignetta di Carlo Manzoni che oggi non farebbe neppure scandalo, ma che allora fu considerata lesiva della dignità del presidente della Repubblica: ritraeva Luigi Einaudi attorniato non dai corazzieri, ma dalle bottiglie di Nebiolo di sua produzione. In totale, Guareschi restò chiuso in cella dal 26 maggio 1954 al 4 luglio 1955. Non ne uscì da uomo libero, perché fino al 26 gennaio 1956 rimase a casa in libertà vigilata. E non ne uscì più neppure con lo spirito integro conservato quando lasciò il lager tedesco: perché un conto è venir imprigionato dai nazisti, un altro è esserlo per mano dei tuoi compatrioti.

 

Il mondo del giornalismo gli voltava le spalle, e il 10 novembre del 1957 Guareschi dovette lasciare la direzione del Candido. Restava però quell’altro mondo, il Mondo Piccolo, il suo mondo, dove era già tornato a vivere dopo gli anni milanesi. Accanto alla casa natale di Verdi, Guareschi aprì un bar e più tardi, nel 1964, un ristorante. “Non mi fanno più scrivere sui giornali”, disse, “e allora mi metto a scrivere il menu”.

Oggi, in quella casa, il ristorante ha lasciato il posto al Club dei Ventitré, gestito con commovente dedizione dal figlio Alberto. Carlotta, la pasionaria dei racconti familiari di Guareschi, non c’è più: ci ha lasciati alla fine del 2015, e anche lei ha salutato il mondo nella chiesetta di San Michele, prima di raggiungere il babbo. Nelle stanze in cui un tempo un omone con i baffi e la camicia a quadri serviva tortelli d’erbetta e culatello, oggi ci sono una mostra permanente, un museo e un archivio formidabile, perché Guareschi conservava tutto. All’ingresso, la bicicletta da corsa usata da Fernandel nei film di don Camillo saluta i visitatori, che sono numerosissimi e provenienti da ogni parte del mondo, perché almeno il tempo, con Giovannino Guareschi, è stato galantuomo.