Tra vero e invenzione. Genio e limite di Sciascia

Matteo Marchesini

C’è nel procedere sciasciano il gusto e quasi il feticismo della parola stampata che si rapprende in emblema, in calligrafia da prosa d’arte

Come sanno i suoi lettori, spesso Leonardo Sciascia cita o parafrasa Savinio e Brancati, maestri devoti al comune mito stendhaliano. Ma questi artisti, e con loro l’amatissimo Soldati, hanno avuto in dono una felicità diversa dalla sua. Sono scrittori estrovertiti, corsivi, rapidi, “continui”: somigliano a disegnatori che tracciando linee leggere e sinuose non staccano mai la matita dal foglio. Sciascia, viceversa, è introvertito, statico, “discreto”, e incide a bulino. La sua è una sintassi di stop and go, di punti e virgola, chiasmi, anastrofi, giochi etimologici e parentesi frenanti: diffida del futuro, blocca il flusso della vita. Questo cursus, con le sue agudezas compiaciute, ha influenzato non poco saggisti come Adriano Sofri e Massimo Onofri.

 

C’è nel procedere sciasciano il gusto e quasi il feticismo della parola stampata che si rapprende in emblema, in calligrafia da prosa d’arte – feticismo rintracciabile anche in Calvino, passato a sua volta da Cecchi a Borges. Solo che l’autore delle “Città invisibili” ne trae fantasie umoristiche, mentre l’autore di “Todo modo” lo traduce nelle allegorie satiriche e nere di chi spia l’infamia della Storia dalla finestra di casa Manzoni. La sua “felicità” è quella di un siciliano sedentario che tra le sue carte trova uno spazio protetto entro cui riflettere sul potere strutturalmente mafioso trionfante nelle piazze: i suoi vice e i suoi giudici a latere svolgono le loro indagini come filologi. Ecco perché Sciascia ama il giallo atemporalmente “vittoriano”, “rompicapo” dove investigatori abitudinari sembrano giocare a bocce ferme. E’ il giallo che da Dupin arriva da un lato a Poirot e dall’altro alle metafisiche kafkiane, passando per il “Wilde della criminologia” Holmes e per le cure d’anime di Maigret e Padre Brown.

 

Speculare a questo amore è il rigetto dell’hard-boiled, di cui secondo lo scrittore – dopotutto un racalmutese nato nel 1921 – Gide e Cocteau apprezzerebbero il sadismo a causa dei loro “mal protesi nervi”. Di queste opinioni dà conto una trentina di pezzi scritti tra gli anni 50 e gli 80 e riuniti oggi da Paolo Squillacioti in “Il metodo di Maigret” (Adelphi). Qui Sciascia spiega che il poliziesco è la teologia della modernità desacralizzata, il rito nevrotico e purificatore escogitato per colmare il divario tra la teoria che vuole la legge uguale per tutti e la realtà che la smentisce. In Italia, dove la verità o s’insabbia o si sa da sempre ma non può esser detta, l’unico tipo di giallo attendibile è però quello parodico, senza soluzione: il “Pasticciaccio” o la sotie. Poca credibilità ebbe dunque tra le due guerre l’America truccata da Belpaese di De Angelis e Varaldo; e meno ne hanno i nostri giallisti dell’ultimo ventennio. Ma sono molte le osservazioni sciasciane che lasciano il segno. Acutissime quelle sul clima natalizio della Christie e sul rovesciamento della dialettica Don Chisciotte-Sancho in Conan Doyle: nell’età positivista è il cavaliere Holmes a puntare sull’assenza di mistero, mentre lo scudiero Watson corteggia il soprannaturale. Quanto al prete di Chesterton, non è solo un “detective jettatorio” come i tanti che dovunque vanno “suscitano il morto”. Lui cerca il peccato a caso nella folla sapendo già che è dappertutto, e quindi più di ogni altro investigatore rappresenta la Grazia: anzi “troppa Grazia”. Ma il centro delle riflessioni è il commissario di Simenon, a cui Sciascia vorrebbe somigliassero i poliziotti italiani. Maigret non intende punire ma capire, e capisce “perché ama”. Nel suo lento ruminio “non pensa”, almeno non nel senso di un ragionare brillante e loico: semmai sente, si lascia impregnare dalle atmosfere fino a intuire un segreto doloroso. Qua e là, Sciascia scova fatti di cronaca che sembrano imitare i romanzi. In questa spola tra vero e invenzione è il suo genio e il suo limite: come ha visto Cordelli, rischia infatti di poeticizzare troppo retoricamente la realtà e insieme di rendere troppo affabile la letteratura vestendola con l’attualità del giorno. Eppure ne sentiamo la mancanza. Tutta la sua opera, come quella di Dürrenmatt, ruota intorno al problema della giustizia. Problema più tremendo che mai, ora che i suoi riti si avvicinano al processo teorizzato nel “Contesto” dal giudice Riches: tribunali di guerra, messe dove la transustanziazione avviene sempre e l’errore giudiziario non esiste. Nella sua consequenzialità mostruosa, Riches è il personaggio più dostoevskiano di Sciascia: un piccolo grande inquisitore che fa tremare per gli “inquisiti”, come venivano chiamati i membri di un parlamento molto migliore di quello in cui lo scrittore russo è evocato accanto alla “presunzione di colpevolezza”.

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