L'articolo di Tom Wolfe sui Radical Chic apparso sul New York Magazine nel giugno del 1970

Prendersela con lo chic radicale era facile, per scoprirne le strategie ci voleva un genio

Giuseppe De Filippi

Per Tom Wolfe si trattava di smontare un paradosso: quella strana cosa per cui ribelli e innovatori andavano avanti tutti insieme, a braccetto, marciando guidati dalla moda

Si trattava, per lui, di smontare un paradosso: quella strana cosa per cui ribelli e innovatori andavano avanti tutti insieme, a braccetto, marciando guidati dalla moda. Non funzionava così, lo aveva capito da giovanissimo, forse già negli anni di Yale. E non per fare il controcanto a chi si impanca a ribelle, o peggio si candida all’ossimoro di capo dei ribelli, ma perché lui, Tom Wolfe, la tradizione, i libri scritti bene, la cultura occidentale, li amava davvero e però, e perciò, li sezionava, li smontava, ci viveva dentro, ci litigava, appropriandosene, trasformandoli. E le cesure, le svolte, non le avrebbe mai trasformate in qualcosa di banale, non le avrebbe mai “annunciate”, come si direbbe orrendamente adesso, ma le avrebbe interpretate, magari anche guidate, con una punta di dispiacere.

 

C’è un giorno in cui tutto questo diventa chiaro, e per lui probabilmente del tutto naturale (e quindi per nulla “di rottura”), quando, nel 1962, giornalista già conosciuto e rispettato, prima al Washington Post, poi al New York Herald Tribune (di cui ha avviato il dorso settimanale, New York Magazine), si presenta al direttore di Esquire per proporre un pezzo che trasforma e rielabora tutto quello che stava circolando nelle sottoculture alternative californiane e ne fa giornalismo e letteratura nell’unica forma che gli sembrava possibile in quel momento. Osservando, cercando di capire che diavolo passava in quelle teste, come se Balzac fosse andato a cercarsi la commedia umana tra allucinogeni e esperienze lisergiche.

 

Tanti altri suoi contributi a Esquire seguiranno, un viaggio attraverso l’America che dura poi per tutta la sua vita di scrittore, ma che è qualcosa di travolgente nei Sessanta e nei Settanta. Inventando espressioni, parole, definizioni, formule e canoni linguistici. Sperimentale, appunto, e innovatore nel linguaggio, per conservare però una sola cosa della letteratura tradizionale: il punto di vista dell’autore, la sua capacità di osservazione. Il nocciolo di quello che era sembrato il suo conservatorismo è tutto lì: nel rifiuto dell’ideale non-umano, della filosofia della storia, dei pensieri unici o anche della coscienza di massa, ma solo e sempre nell’affermazione del lavoro di scrittore, di intellettuale, che guarda, ragiona, rielabora e racconta.

 

Quel tipo di giornalismo doveva anche divertirlo enormemente e certamente divertiva i suoi lettori, alle prese però mai con testi facili. E quel metodo funzionava perfettamente per entrare in una nascente comunità hippy e raccontare cosa succedeva con l’uso di Lsd, ma andava benissimo anche per imbucarsi a casa di Leonard Bernstein e raccontare di un imbarazzante party per finanziare il movimento delle Pantere Nere in presenza di alcuni loro capi. Se l’era presa con il secolo dell’“Io”, dominante e unico dio, ma di quell’“Io” anche lui faceva continuamente uso. Solo che era una partita aperta, il suo osservare era partecipato, compassionevole, tutt’altro che narcisistico. E quindi poteva dire (forse il libro non era il migliore, ma fa niente) “Io sono Charlotte Simmons” o raccontare la vita che si perde per un banale incidente (ma non poteva andare diversamente”) di un ricco master of the world. E poteva farci sentire la frustrazione di un “parapalle”, un burocrate mandato da qualche ufficio di assistenza pubblica, a rispondere alle richieste di servizi sociali da parte di tostissimi Mau-mau. Tutto per difendere il punto di vista e il suo libero esercizio. Per questo Bernstein diventa ridicolo (e se ne accorge nel finto racconto in prima persona del suo party), perché di fronte alle Pantere Nere non ha più un punto di vista, si nasconde, finge. E finisce trafitto non tanto e non solo dalla definizione di radical chic inventata per l’occasione da Wolfe, ma dal riferimento letterario del racconto, quella nostalgie de la boue con cui la vecchia aristocrazia francese saltava, smarcava, quella nuova, affettando modi popolani quando i nuovi nobili cercavano invece di farsi accettare imitando invece gli usi aristocratici. Quello era il giochino tentato senza successo da Bernstein quella sera, mischiandosi alle Pantere Nere, e raccontato senza pietà da Wolfe. Prendersela con lo chic radicale era facile, ma per scoprirne le strategie ci voleva un genio.

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