Londra, un finto orso in in città per il lancio di "Fortitude'" la nuova serie Sky (foto LaPresse)

La distopia climatica va di moda perché l'umanità anela alla distruzione

Antonio Gurrado

Letteratura contemporanea e mondo post cristiano

Era una notte buia e tempestosa del 1816 quando Mary Shelley si chiuse in una tenuta ginevrina a scrivere “Frankenstein”, per ingannare il tempo durante quell’anno che tutti dicevano privo di estate. Secondo lo storico Geoffrey Parker, però, la scelta di Mary Shelley non va considerata occasionale reazione a condizioni meteo che impedivano le passeggiate bensì (scrive in “Global Crisis”) testimonianza “del disorientamento e della disperazione che poche settimane di brusco cambiamento climatico possono generare”; la storia della mostruosa creatura fabbricata dall’uomo andrebbe dunque interpretata come allegoria della natura incontrollabile che, in mesi più freddi e piovosi del previsto, si ribella al tentativo umano di dominarla. L’inquietante fantascienza sarebbe insomma specchio di un anticipo del global warming nonché sua lente d’ingrandimento.

 

Amitav Ghosh concorda con quest’ipotesi e (ne “La grande cecità”, Neri Pozza) argomenta che l’orizzonte apocalittico, tratteggiato dalle funeste avvisaglie del global warming nell’ultimo quarto di secolo, sembra tuttavia non trovare cantori adeguati. Non solo del cambiamento climatico si parla quasi solo in saggistica e pochissimo in narrativa, dice, ma solo una manciata di autori di nicchia si è mostrata consapevole dell’inquietudine che percorre la nostra epoca e capace di proiettarla in un futuro immaginario: Margaret Atwood, Cormac McCarthy, J.G. Ballard, Ian McEwan e pochi altri. Non così gli autori mainstream. Eppure Ghosh non sembra considerare l’inverso: è stato il pubblico mainstream a muoversi verso questi autori e queste inquietudini, popolarizzandole. La prova del nove è l’incremento di serie televisive – prodotto di intrattenimento pop, per quanto di elevata qualità – ambientate in un futuro distopico, frutto sia di sceneggiature originali (“Black Mirror”, ad esempio) sia di ripescaggi di classici letterari (“The man in the high castle” è tratta da un romanzo di Philip K. Dick vecchio di mezzo secolo). Allo stesso modo prosperano su giornali e siti culturali le liste dei romanzi distopici imprescindibili, equamente divisi fra frutti di questo decennio (a cominciare dal cupo futuro di “Ready Player One”, del 2011) e radici vieppiù profonde e intricate: H.G. Wells scriveva al precedente giro di secolo, “Erewhon” di Samuel Butler è del 1872 e perfino “I viaggi di Gulliver”, che sono del 1726, hanno dismesso la loro erronea fama di fantasmagoria per bambini onde assumere quella altrettanto assurda di madre di tutte le distopie.

     

Questa tendenza è sintomo di due fatti. Il primo è che, secondo Ghosh, il moderno romanzo occidentale è fratello gemello delle teorie sulla probabilità, essendo entrambi fioriti attorno al Settecento; a differenza di testi più antichi o esotici, il romanzo occidentale basa la sospensione dell’incredulità sull’accantonamento dell’inaudito e del meraviglioso in favore del probabile e del verosimile. Se oggi la distopia rompe gli argini dell’editoria di genere, è perché intuiamo la presenza di inquietudini – in linea di massima climatiche, ma facilmente collegabili a mostri astratti quali il capitalismo e l’imperialismo – che premono per plasmare un possibile mondo futuro, ossia per venire raccontate come storie verosimili. Il secondo, diretta conseguenza, è stato ben espresso da Francesco Guglieri su IL: ci rifugiamo nella distopia perché è il solo realismo possibile per il nostro immaginario pessimista.

    

Nella circostanza, però, la questione da porsi non è se il pessimismo sia giustificato (questo giornale è ottimista, quindi intuite la risposta) bensì se tale immaginario non sia proiezione di un desiderio, più che di un timore. L’umanità anela alla propria distruzione? Vede nei fenomeni ascritti al cambiamento climatico la promessa di una distruzione in cui vuole gettarsi? Lo sospetta in maniera articolata Simone Sauza su Indiscreto.org, indicando fra le prove l’irruzione nello star system letterario di Antoine Volodine: in “Terminus radioso” (66th & 2nd), il romanziere francese forgia un mondo – grossomodo di qui a cinquecento anni – che si trascina verso la fine nell’indifferenza di protagonisti i quali stessi non sembrano bramare altro che fuga ed estinzione, a cominciare da una donna millenaria, salvo poi accorgersi che il trapasso fra vita e morte è biunivoco quindi non definitivo. Il senso del mondo non va verso un compimento, quindi ogni prospettiva apocalittica è una speranza vana.

   

Dopo che la distopia è diventata mainstream, la prossima evoluzione della cultura di nicchia sarà probabilmente ritenere che il pessimismo vada troppo di moda e che il riscontrare nei tumulti climatici o politici o economici le avvisaglie di una prossima fine non sia in realtà altro che un consolatorio tentativo di dare un senso (cioè una direzione) a un mondo che sembra non averne. Resta da capire perché mai l’uomo trovi affascinante anelare alla propria estinzione come prospettiva verosimile, incombente. Anzitutto per illudersi che la presenza dell’uomo abbia un impatto sulla natura: abbandonarsi alla rivalsa degli elementi è un tentativo superstizioso di dominarli, e il più superstizioso in quanto s’incardina sulla pretesa che la natura possa nutrire sentimenti umani. In secondo luogo, la proiezione distopica potrebbe significare il ritorno al principio veterotestamentario di una divinità che soppesa l’azione umana e la punisce non nell’aldilà bensì mandando disgrazie sulla terra; sotto questo aspetto, la preconizzazione dell’apocalisse altro non sarebbe che l’attesa differita delle piaghe d’Egitto. Con esito cronologicamente paradossale, questo ritorno all’Antico Testamento è un sintomo tipicamente post-cristiano: dopo avere rinnegato l’idea rivoluzionaria di un Dio misericordioso, per non sentirsi insignificante l’umanità sente il bisogno di un Dio che la punisca.

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