Andrea Marcolongo

La misura eroica di Andrea

Annalena Benini

Era senza parole, non mangiava più. Ha attraversato la lingua e lo spirito dell’antica Grecia (e ne ha fatto un bestseller) per costruire la sua allegria. Incontro con Andrea Marcolongo, che ora vive a Sarajevo

“Se non sei felice, perché non prendi e te ne vai”, pensava Andrea Marcolongo ricordando una battuta di Woody Allen, e intanto lavorava con le parole ma sul polso aveva tatuato “senza parole”, che adesso ha coperto di inchiostro, un bracciale nero a dirle che c’è stato un tempo in cui non parlava, rispondeva solo: tutto bene, a chi si preoccupava per lei. Non mangiava più, non desiderava niente (“La fame non mi lasciava mai sola, mi faceva tanta compagnia”). Adesso Andrea parla, soprattutto con gli occhi azzurrissimi, e desidera. Siamo a Milano, dentro la pioggia, c’è il tour del suo nuovo libro, “La misura eroica” (Mondadori) che verrà tradotto in diciotto paesi, per ora, e che la Francia ha già adottato come simbolo del “diario intimo colto”, e a gennaio aprirà i festeggiamenti per Les Belles Lettres, la casa editrice di testi classici più importante del mondo.

 

A Milano, sotto la pioggia, per il tour del suo nuovo libro, pubblicato da Mondadori, che verrà tradotto in diciotto paesi

Siamo a Milano e Andrea Marcolongo vorrebbe essere sempre a Sarajevo, la città “più ferita di me” in cui ha scelto di vivere. “Ero in viaggio con la mia migliore amica nei Balcani, abbiamo attraversato il Montenegro e ci siamo fermate in Bosnia, a Sarajevo. Mi ha colpito così tanto, non capivo perché la gente non fosse arrabbiata: la vitalità delle persone, l’assenza di rabbia, i buchi dei proiettili sui palazzi, la morte sempre accanto alla vita, come per gli antichi Greci”. Così, dopo pochi mesi, ha deciso di andare a scrivere a Sarajevo il suo primo libro, “La lingua geniale, nove ragioni per amare il greco” (Laterza), che ha avuto un enorme successo, moltissime traduzioni, e le ha portato in premio una nuova vita da scrittrice. Le chiedo di raccontarmi com’è andata, che cos’è successo allora, come cambia una vita, visto che nel nuovo libro, completamente diverso dal primo, il senso è proprio questo: il cambiamento, il superamento della linea d’ombra, raccontato attraverso il mito più antico del mondo, gli Argonauti, a cui Omero nell’“Iliade” si riferisce come “alla storia nota a tutti”, così nota che nemmeno la racconta. La prima nave del mondo, un equipaggio di ragazzini, la ricerca del vello d’oro, l’amore di Giasone e Medea, un viaggio di andata e uno di ritorno. La misura eroica, che è quella umana di chi sceglie se stesso nel mondo e prova a navigare. La misura di chi si mette alla prova, e l’eroismo contiene anche la possibilità del fallimento.

 

“E’ un libro che avevo dentro fin dalla mia tesi di laurea, ma non lo sapevo ancora: l’ho scritto per una storia d’amore, e l’ho dedicato a Sarajevo, la città dove vorrei che crescessero i figli che avrò”, dice adesso Andrea Marcolongo, e il suo sguardo azzurro diventa quasi trasparente. Com’è cambiata la tua vita? “Un agente mi scrisse una mail per chiedermi se avevo un libro del cassetto, aveva letto i miei articoli di giornale, conosceva qualcosa di me. Io ho sempre detto no a tutto, penso come Emily Dickinson che il NO sia la parola più selvaggia della lingua, ma a quella risposta ho aggiunto un post scriptum, ma senza consapevolezza: ho nel cassetto un saggio sul verbo nel greco antico, si faccia una risata. Erano sei pagine che avevo scritto per il figlio di un uomo che amavo, che aveva problemi con i paradigmi e odiava il greco. Suo padre mi aveva detto: perché non gli parli tu?, e io avevo scritto qualche pagina. Così è nato il mio libro, da un post scriptum, e da un amore che era già finito”. A Sarajevo Andrea Marcolongo ha preso casa per sei mesi, ha portato il suo cane, ha imparato il bosniaco e ha imparato l’ironia di chi non si è fatto cambiare dall’odio ed è capace perfino di scherzare sulle lapidi in città e sui fori di proiettile. “Sarajevo mi ha salvato, mi ha accolto, mi ha curato, a Sarajevo non mi sono più sentita sola”.

 

Scrive del cambiamento, del superamento della linea d’ombra, raccontato con il mito più antico del mondo, quello degli Argonauti

Lei ha perso sua madre quindici anni fa, quando era una ragazzina di sedici che non sapeva nemmeno che per fare il tè si deve immergere una bustina nell’acqua bollente, “e da allora sono sola, non ho una casa in cui tornare, una famiglia che mi aspetta, non ho radici e le radici devo cercarle, non ho persone a cui chiedere consigli, e infatti per andare a Sarajevo non ho chiesto consiglio a nessuno: ma lì ho incontrato la mia famiglia bosniaca e molti amici, e a poco a poco ho trasferito tutto, il dentista, il veterinario, i miei libri. Ho avuto un lutto di recente e ho avuto bisogno di tornare subito a Sarajevo per respirare. In bosniaco straniera si dice ‘strana’, quindi per i miei vicini di casa io all’inizio ero la strana. Avevo il pudore di non chiedere, facevo finta che avere un foro di proiettile sul balcone, nel centro della città, fosse normale. Poi ho studiato la lingua, ho imparato a parlare con loro, a scherzare come loro, ho imparato gesti che non erano miei, ho imparato a vivere sempre fuori casa, come tutti a Sarajevo, e non c’è un altro posto in cui vorrei stare. Lì sono stata subito felice, ho sentito la forza di stare al mondo, e adesso i loro morti sono anche i miei morti, e nei miei morti, che saluto ogni pomeriggio dal cavalcavia di Sarajevo, guardando il cimitero, c’è mia madre”.

 

Questa intimità di racconto è possibile, fra due sconosciute che non si sono mai incontrate prima, grazie alle parole della Misura eroica, che contiene la storia di Apollonio Rodio ma anche gli appunti di vita di Andrea Marcolongo, che una sera a mezzanotte è partita in auto con il cane Carlo, che stava male, e alle nove del mattino, senza fermarsi, è arrivata a Sarajevo dal veterinario, per farlo curare. E’ una storia, come quella greca, di partenze e ritorni, e di avventure durante il viaggio verso un posto che non ha un aeroporto, che ha strade difficili, che bisogna avere voglia di raggiungere. Il posto in cui Andrea Marcolongo è diventata adulta ed è diventata una scrittrice. “Per anni avevo una paura folle di diventare scrittrice. Avevo paura perché non scrivevo. E mi arrabbiavo perché avevo paura”. Sospirava di poter scrivere, ma ogni volta che partiva trovava scuse e alibi per fermarsi altrove: insegnare alla scuola Holden, fare la ghostwriter per i discorsi di Matteo Renzi, trovare le parole per le aziende, per le storie degli altri: consulente di comunicazione a partita Iva.

 

“Credevo che essere adulta fosse essere economicamente indipendente, e io ho passato anche gli anni dell’università a rivendere i libri subito dopo gli esami e a lavorare per mantenermi, e ne ero molto fiera, fiera di essermi comprata un’automobile, ma confondevo felicità e libertà economica”. Di lavoro faceva il fantasma, ha scritto Andrea Marcolongo (“Senza volto, senza nome, senza nessuno che mi venisse a cercare per chiedermi conto, che mi inviasse lettere per mettermi in mano, pesante come un macigno, la sua gioia o il suo dolore. Scrivevo e non dovevo risponderne, non era mia responsabilità”), e adesso invece si è conquistata la libertà e il coraggio (il vello d’oro, direbbe Apollonio Rodio) di scrivere di sé.

 

“Ho tanto navigato, come Giasone, ho naufragato, e adesso riesco per la prima volta a raccontare quello che mi è successo”

Il greco, la lingua del mondo antico, addosso a una ragazza bionda, orgogliosa e tormentata, piena di tatuaggi (il giorno della laurea in Lettere classiche si è tatuata sulla caviglia il labirinto di Cnosso, quello del filo di Arianna). “Ma quando hanno cominciato a dire tutti, compreso mio padre, che il greco andava di moda, mi sono bloccata, arrabbiata, e ho detto: mai più”. Tuo padre però sarà fiero di quello che hai fatto, così giovane, così sola. Andrea Marcolongo sorride in un modo diverso, resta in silenzio, gli occhi le diventano ghiacciati. Poi dice che suo padre è molto lontano da questo mondo, e per un lungo periodo è stato molto lontano anche da lei, ma adesso si stanno riavvicinando. “Lui dice quanto sono brava al panettiere, io vorrei che lo dicesse a me”. Naturalmente, dopo il successo della “Lingua geniale”, alla ragazza del greco antico sono stati proposti il latino geniale, Firenze geniale, Milano geniale, tutto quello che poteva diventare un altro bestseller.

 

“Non lo avrei mai fatto, non lo farei mai. Sono molto affezionata ai miei selvaggi no. E avevo già in mente gli Argonauti, avevo in mente la storia del passaggio all’età adulta, anche se io mi siedo, scrivo, butto, riscrivo, e non so mai, all’inizio, dove arriverò alla fine”. Non lo sapeva nemmeno Giasone quando per la prima volta è salito su quella nave, non lo sa un bambino che costruisce un castello di sabbia in riva al mare, che forma avrà la sua fortezza. Andrea Marcolongo, mi dice adesso, non sapeva che sarebbe sopravvissuta. “Quando a sedici anni mi hanno detto che dopo tre mesi mia madre sarebbe morta, ho pensato: finirà il mondo, morirò anch’io. Mia mamma si è ammalata a giugno, è morta il primo giorno di scuola, a settembre. Invece, incredibilmente, due anni dopo ero ancora viva. Ho smesso di parlare, sono diventata anoressica, sono diventata anche crudele, impedivo alle persone di volermi bene, mi tingevo i capelli di nero per non assomigliare a mia madre, ma mentre dalla mia bocca non uscivano parole avevo sempre in testa l’etimologia delle parole, ne avevo cura, me le tenevo dentro”.

 

Adesso Andrea Marcolongo, trentun anni, è dentro la sua nuova vita di giovane donna di Sarajevo, che ogni mattina va in un caffè a scrivere, e ogni sera esce con gli amici, con il fidanzato, spesso in festa perché a Sarajevo c’è sempre una festa da onorare, qualcosa da festeggiare, e molte religioni insieme che mescolano burqa a minigonne, moschee, chiese e sinagoga, e anche l’idea fatalista di uno strano destino. “La Prima guerra mondiale è cominciata a Sarajevo, l’ultima guerra del Novecento si è combattuta a Sarajevo”. Gli abitanti di Sarajevo secondo Andrea Marcolongo hanno vinto la guerra, perché non hanno tradito loro stessi, non hanno lasciato che l’odio li abitasse. E tu? “Io mi sono fatta salvare da loro, e ho tanto navigato, come Giasone che era un ragazzino, ho naufragato, ho pianto, e adesso riesco per la prima volta a raccontare quello che mi è successo, lo sto facendo tornare a galla”.

 

“Ho avuto un lutto di recente e ho avuto bisogno di tornare subito a Sarajevo per respirare. Non c’è un altro posto in cui vorrei stare”

“Ho tanto navigato e ora sono tornato per costruire la mia allegria”, si legge, intagliato nel legno, sulla porta dell’ultima casa di Pablo Neruda, a sud di Santiago del Cile, scrive Andrea Marcolongo nelle ultime pagine del suo libro. “Questo motto, in un tempo lontanissimo fu quello di Giasone e Medea, che ridevano di gioia approdati a Pagase”. Nel libro ci sono anche le mappe di questo viaggio, la storia del primo viaggio dell’umanità, la storia che Omero conosceva talmente bene da non volerla nemmeno spiegare. Andrea Marcolongo ha attraversato la lingua greca per arrivare allo spirito greco, e costruire la sua allegria. Alla fine di questa conversazione Andrea si è alzata per andare al cinema a vedere “La forma dell’acqua”, sotto la pioggia di Milano. Ha detto che è felice.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.