Gioie e tragedie in quella cantina di vini preziosi che sono le Lettere di Tolkien
Torna in libreria l'epistolario dello scrittore britannico
Un vero banchetto per gli appassionati, “una cantina di vini preziosi”, come per Tolkien stesso fu il Kalevala e la cultura finnica. Le corrispondenze cartacee erano spesso uno strazio per chi doveva adempierle quotidianamente (molti dei nostri nonni avrebbero sottoscritto il sollievo dell’ottuso zio babbano di Harry Potter, “Non c’è posta la domenica”), ma sono certamente una gioia per noi oggi che le leggiamo, e costituiscono anche un salutare contrappeso, nella loro eleganza formale, alla cascata brutale di messaggi cui spesso si riduce la nostra casella email. Soprattutto quando a scriverle è un uomo come Tolkien. Leggerle equivale a sedere in un angolo della fucina della sua straordinaria immaginazione, come quella in cui i Mastri Elfi infusero la bellezza degli Alberi Divini nelle loro Gemme o la magia negli Anelli del Potere, e poterlo osservare all’opera, mentre storie e personaggi prendono vita. Dal primo, discreto ma decisivo cortocircuito immaginativo, quando la “folle occupazione” della lingua delle fate, il “vizio privato” che coltivava nei suoi taccuini, si fonde e sovrappone al sangue e al fango delle trincee della Prima guerra mondiale, alle gioie e dolori della vita familiare e della fede cattolica.
Dalle riunioni con gli altri “Inklings”, amici scrittori come C. S. Lewis o Charles Williams, alle sue passioni filologiche e letterarie, dal suo affilato umorismo british a talune sue rigidità emotive e culturali. Vi incontriamo le apprensioni di sapere il proprio amato figlio Cristopher in guerra (gli scambi tra i due costituiscono quasi un epistolario a sé, ed è a Cristopher che Tolkien dedica l’addio di Faramir a Frodo che si addentra in Mordor, nella speranza di potersi ritrovare un giorno “sotto un muro assolato a ridere delle antiche pene”) e l’eco dell’Eden perduto che si riflette perfino nella piccola pace d’una tazza di tè in un pomeriggio d’inverno, la sofferenza bruciante delle incomprensioni quando pubblichi il grande romanzo a cui lavori da anni e offri il tuo cuore perché venga preso a fucilate, ma anche la gratitudine per chi sa inaspettatamente accoglierlo davvero. “Meno sarà tormentato dal desiderio, colui che conosce molti canti, o che con le sue mani può toccare l’arpa: il suo bene è un dono di ‘gioia’ (= musica e/o poesia), che Dio gli ha donato”. Sono parole del Libro di Exeter che Tolkien ricordava proprio a Christopher. “Quanto colpiscono queste antiche parole provenienti dall’oscuro passato! Longað! In tutte le epoche gli uomini (quelli del nostro tipo, più consapevoli) l’hanno sentito: non necessariamente causato dal dolore, o dal mondo crudele, ma da essi acuito”. Queste lettere non sono solo la testimonianza d’un cuore capace di accusare le ferite del mondo e il conforto di canti che vengono da molto lontano, nel tempo e nello spazio. Sono anche la storia di chi ha saputo a sua volta levare un canto con cui camminare tra i pericoli del nostro tempo. Un grande viaggio creativo, che va avanti e indietro tra la terra degli elfi e noi, tra le tane dei draghi e un piccolo giardinetto a Oxford. Dopo tutto, Andata e ritorno era proprio il titolo che Bilbo aveva dato al suo libro.