Gioie e tragedie in quella cantina di vini preziosi che sono le Lettere di Tolkien
Torna in libreria l'epistolario dello scrittore britannico
La Mente del Creatore. Era questo il titolo di un saggio della drammaturga e traduttrice Dorothy Sayers, una riflessione dedicata al mistero dell’arte, che iniziava con una citazione di Berdjaev: “Nel caso dell’uomo, ciò che egli crea è più espressivo di quello che genera. L’ immagine dell’artista e del poeta è impressa più chiaramente nelle sue opere che nei suoi stessi figli”. E certamente – pur nella consapevolezza perenne che ogni grande espressione artistica perfettamente compiuta comprende sì la biografia del suo artefice eppure al contempo la supera sempre – sono molti i volti nella terra di mezzo di J. R. R. Tolkien (che fu estimatore della stessa Sayers) nei quali è possibile cogliere un suo “ritratto dell’artista” da soldato e innamorato (Beren-Aragorn), da saggio e incantatore, capace di evocare storie perdute e linguaggi misteriosi (Gandalf, e quando si trovò a impersonarlo sul grande schermo, l’attore Ian McKellen si ispirò ad alcuni tratti della voce del Professore stesso), da amante della quiete domestica e del giardinaggio e al tempo stesso delle bellezze e pericoli remoti (Sam Gamgee). E, soprattutto, da scrittore stesso, come il piccolo Ulisse-Bilbo Baggins, che Tolkien, al pari di Manzoni e Eco, avrebbe tradotto. E’ un elenco ovviamente riduttivo, giacché, come scrisse una volta Mimmi Cassola, un autore non è presente solo in questo o quel protagonista, ma anche nel cane che si incontra nella tal pagina, o nel lampione menzionato nell’altra pagina. Avversari, luoghi e dettagli sono sempre espressi e plasmati dal suo sguardo di “subcreatore”, secondo la celebre espressione tolkieniana, si tratti dei boschi elfici di Lothlorien o della lava di Mordor, della carica dei Rohirrim o di una collina che si profila all’orizzonte, e che si nomina appena. Forse soprattutto in quella, “perché sono le storie migliori a non essere raccontate”. Del fecondo intreccio tra esistenza quotidiana e arte e del misterioso processo della scrittura sono specchio fedele e privilegiato le Lettere di Tolkien, che finalmente tornano a essere pubblicate da Bompiani (nella traduzione di Lorenzo Gammarelli di Studi Tolkieniani), per il compleanno del Professore.
Un vero banchetto per gli appassionati, “una cantina di vini preziosi”, come per Tolkien stesso fu il Kalevala e la cultura finnica. Le corrispondenze cartacee erano spesso uno strazio per chi doveva adempierle quotidianamente (molti dei nostri nonni avrebbero sottoscritto il sollievo dell’ottuso zio babbano di Harry Potter, “Non c’è posta la domenica”), ma sono certamente una gioia per noi oggi che le leggiamo, e costituiscono anche un salutare contrappeso, nella loro eleganza formale, alla cascata brutale di messaggi cui spesso si riduce la nostra casella email. Soprattutto quando a scriverle è un uomo come Tolkien. Leggerle equivale a sedere in un angolo della fucina della sua straordinaria immaginazione, come quella in cui i Mastri Elfi infusero la bellezza degli Alberi Divini nelle loro Gemme o la magia negli Anelli del Potere, e poterlo osservare all’opera, mentre storie e personaggi prendono vita. Dal primo, discreto ma decisivo cortocircuito immaginativo, quando la “folle occupazione” della lingua delle fate, il “vizio privato” che coltivava nei suoi taccuini, si fonde e sovrappone al sangue e al fango delle trincee della Prima guerra mondiale, alle gioie e dolori della vita familiare e della fede cattolica.
Dalle riunioni con gli altri “Inklings”, amici scrittori come C. S. Lewis o Charles Williams, alle sue passioni filologiche e letterarie, dal suo affilato umorismo british a talune sue rigidità emotive e culturali. Vi incontriamo le apprensioni di sapere il proprio amato figlio Cristopher in guerra (gli scambi tra i due costituiscono quasi un epistolario a sé, ed è a Cristopher che Tolkien dedica l’addio di Faramir a Frodo che si addentra in Mordor, nella speranza di potersi ritrovare un giorno “sotto un muro assolato a ridere delle antiche pene”) e l’eco dell’Eden perduto che si riflette perfino nella piccola pace d’una tazza di tè in un pomeriggio d’inverno, la sofferenza bruciante delle incomprensioni quando pubblichi il grande romanzo a cui lavori da anni e offri il tuo cuore perché venga preso a fucilate, ma anche la gratitudine per chi sa inaspettatamente accoglierlo davvero. “Meno sarà tormentato dal desiderio, colui che conosce molti canti, o che con le sue mani può toccare l’arpa: il suo bene è un dono di ‘gioia’ (= musica e/o poesia), che Dio gli ha donato”. Sono parole del Libro di Exeter che Tolkien ricordava proprio a Christopher. “Quanto colpiscono queste antiche parole provenienti dall’oscuro passato! Longað! In tutte le epoche gli uomini (quelli del nostro tipo, più consapevoli) l’hanno sentito: non necessariamente causato dal dolore, o dal mondo crudele, ma da essi acuito”. Queste lettere non sono solo la testimonianza d’un cuore capace di accusare le ferite del mondo e il conforto di canti che vengono da molto lontano, nel tempo e nello spazio. Sono anche la storia di chi ha saputo a sua volta levare un canto con cui camminare tra i pericoli del nostro tempo. Un grande viaggio creativo, che va avanti e indietro tra la terra degli elfi e noi, tra le tane dei draghi e un piccolo giardinetto a Oxford. Dopo tutto, Andata e ritorno era proprio il titolo che Bilbo aveva dato al suo libro.
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