Foto di Rachel-Esther via Flickr

Un grande lavoro di squadra per la traduzione integrale del Talmud

Manuel Orazi

In italiano lo zibaldone del popolo ebraico

Le grandi opere non sono solo di cemento, ma possono essere anche d’inchiostro. E l’inchiostro è scorso a fiumi per comporre il Talmud, il cuore della tradizione orale dell’ebraismo. Non è facile definire il Talmud, che in ebraico significa studio, ed è un corpus di commenti biblici accumulati lungo i millenni da rabbini dalle estrazioni più diverse, a partire da Babilonia. Oggi questo gigantesco zibaldone del popolo ebraico viene tradotto integralmente grazie a un progetto organico frutto della collaborazione fra la presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Ucei, il Miur e il Cnr che ha costituito un software apposito, “Traduco”, in grado di mettere in comune tutte le scelte traduttologiche ed è dunque anche il frutto di una sperimentazione computazionale dell’Istituto di linguistica computazionale del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa. Come in ogni grande opera, infatti, il personale coinvolto è poderoso, circa settanta traduttori, oltre alle decine di studiosi coinvolti, anche cattolici come Alberto Melloni, ai revisori editoriali e agli informatici tutti diretti da Clelia Piperno e presieduti dal rabbino capo Riccardo Di Segni in sinergia col ministero dell’Università e della Ricerca. La sua natura composita e frammentaria ha influenzato generazioni di intellettuali, non solo gli specialisti di ebraismo come Gershom Scholem, che ha pescato a piene mani nel vasto mare talmudico per costruire la sua poderosa ricostruzione La Kabbalah e il suo simbolismo, l’opera più mistica e magica dove si trova ad esempio anche la leggenda del Golem. Anche figure più eterodosse e che ora appartengono a tutti presentano venature talmudiche: Walter Benjamin e il suo sogno di costruire un’opera intera fatta solo di glosse e aforismi, Parigi, capitale del XIX secolo, ma anche il Kafka dei Diari, “La melodia talmudica di precise domande, scongiuri o spiegazioni: l’aria entra in un tubo e se lo porta via, in compenso da piccoli lontani inizi una grande elica, orgogliosa nel complesso, umile nei giri, va incontro all’interrogato”.

 

Il Talmud è insomma come un vento, che viene da lontano e avvolge trasportandola ogni generazione in un dialogo sospeso sopra il tempo e lo spazio. E in effetti leggendo le pagine del nuovo trattato Berakhòt (994 pp., 90 euro) si ha impressione che anche gli antenati dei vari Freud, Marx e Einstein abbiano speso del tempo su questo testo. E’ pubblicato da Giuntina, la casa editrice di ebraistica della famiglia Vogelmann che ha fuso la cultura mitteleuropea di provenienza con l’arte tipografica fiorentina (giuntina infatti è termine che indicava volumi miscellanei del Rinascimento toscano) e ormai, dopo oltre trent’anni di attività, è certo il soggetto migliore per mettere in luce il rapporto profondo che la traduzione intrattiene dall’origine con ciò che è straniero, con l’alterità, e la forma più alta di contrasto alle barbarie xenofobe delle fascisterie di questi tempi. “Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei”, affermava Heidegger in un corso su Hoelderlin: è facile immaginare che gli antisemiti si nasconderanno dietro l’argomento greve dell’inutilità di quest’opera “soldi buttati, c’è tanta gente che non ha i soldi per arrivare a fine mese”. Questo giornale ha difeso da solo investimenti come la Tap, la Tav, l’Expo, lo stadio della Roma, figuriamoci se tira indietro dal difendere un investimento purtroppo così raro come il progetto Talmud con cui si dà corpo alla tanto mitizzata parola “ricerca”: solo così si costruisce il futuro e si misura il rango di una nazione. Per una volta l’Italia può valorizzare le sue enormi competenze traduttologiche, bibliste e filosofico-teologiche, dando peraltro lavoro e sostentamento al fior fiore dei propri laureati. Evviva dunque le sue parti, la Mishnà, Ghemarà, la Halakhà e l’Aggadà e i suoi trattati minori, tutti restituiti da una grafica unica dove i vuoti sono importanti quanto i pieni, fatto che ha ispirato persino l’architetto del Museo ebraico di Berlino, Daniel Libeskind: “Il museo è aperto a molte interpretazioni e a molti modi di percorrerlo, proprio come le pagine del Talmud, dove i margini sono spesso altrettanto importanti di ciò che vi è commentato”.

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