La rimozione delle statue di generali confederati alla University of Texas di Austin (foto LaPresse)

La febbre degli ignoranti virtuosi

Giulio Meotti

Intervista a Roger Scruton sui “nuovi iconoclasti” che abbattono statue a ogni latitudine. “E’ il dream world di giovani che si abbeverano a Facebook e di élite che ripudiano la cultura occidentale”. Nuovo fronte in Canada e Australia

Roma. Di “attacco rabbioso di febbre” ha parlato ieri, sul quotidiano francese Figaro, il filosofo canadese Mathieu Bock-Côté. Un virus che sembra avvicinarsi alla fase di breakout. Zika? Ebola? No. E’ la nuova iconoclastia, la distruzione di immagini e monumenti che offendono questa o quella folla e comunità. Il virus ha iniziato con le statue sudiste (Nancy Pelosi vuole toglierle pure dalla hall della Camera dei rappresentanti di Washington).

 

Perché fermarsi? Così è passato a Cristoforo Colombo (ieri una statua del celebre navigatore è stata decapitata in un parco a Yonkers, mentre il sindaco di New York Bill de Blasio ne auspicava la rimozione). Poi è stata la volta dell’ammiraglio Nelson (sul Guardian la richiesta per rimuoverne il monumento a Londra). Ha proseguito con Gandhi. E ora con i padri fondatori del Canada e dell’Australia. Tutti arruolati nelle fila dei “suprematisti bianchi”.

 

Sul Figaro, Bock-Côté l’ha chiamata “furiosa purificazione che eccita la folla”, una “rabbia improvvisa che, in nome della decolonizzazione interna agli stati occidentali, vuole estirpare la memoria”. E’ un “delirio penitenziale dell’occidente”.

 

“E’ un misto di un movimento giovanile, che si abbevera soltanto a Facebook e che ignora la nostra storia e alta cultura, e di élite pronte a ripudiare la cultura occidentale”, dice al Foglio il filosofo inglese Roger Scruton, che attualmente insegna all’Università di Oxford e decano del conservatorismo britannico. “Si vogliono tutti i benefici dell’occidente senza i sacrifici che questi hanno comportato. E’ il nuovo ‘dream world’ di gente che deve dimostrare di essere virtuosa. E’ la virtù senza i costi. A influire senz’altro la decolonizzazione, temo che il buon nome di Gandhi, simbolo di compromesso politico, sia il prossimo a venire giù.  

 

L’iconoclastia è parte della condizione umana, dagli ortodossi di Bisanzio all’islam, ma qui siamo di fronte a una iconoclastia democratica di una cultura che ripudia gli eroi”. In Canada nei giorni scorsi sono partite le petizioni e le manifestazioni per abbattere le statue del leader politico Sir John A. Macdonald, e per cancellarne il nome impresso all’aeroporto di Ottawa, in un ponte principale, in un parco lungo il fiume Ottawa e in numerosi edifici governativi, oltre che sulla banconota da dieci dollari. La Federazione degli insegnanti dell’Ontario ha lanciato l’idea di “rinominare le scuole intitolate a Sir John A. Macdonald”. Perry Bellegarde, a capo della più grande organizzazione indigena del Canada, ha detto che eliminare il nome di Macdonald è parte del programma promesso dal primo ministro Justin Trudeau di riconciliazione con i popoli indigeni. La febbre intanto attecchiva in Australia, dove da giorni si parla di rimuovere dalla scena pubblica il nome del padre dell’Australia, il capitano James Cook, l’eroico navigatore, ma per la lobby aborigena e molti giornalisti, un demone feroce, un usurpatore di terre, un violentatore di un intero popolo (“non c’è orgoglio nel genocidio” recita una delle frasi lasciate sulle statue di Cook). Due statue a Sydney di Cook e del generale scozzese Lachlan Macquarie sono state imbrattate con scritte che dicevano “Change the date”, l’Australia Day che si celebra il 26 di gennaio, il giorno in cui il capitano approdò nella baia di Sydney. La sindaca di Sydney, Clover Moore, ha detto che riconsidererà alcuni aspetti di quei monumenti. Il premier australiano, Malcolm Turnbull, ha parlato invece di “stalinismo”.

 

Si smantellano statue, si riscrivono libri, si moltiplicano scuse a questa o quella comunità. “Prima o poi, ci prenderanno le statue di De Gaulle, Churchill, Roosevelt e altri, come se fossimo invitati a una nazificazione retrospettiva del passato occidentale” scriveva ieri sul Figaro Mathieu Bock-Côté. “La storia dell’Europa sarebbe una prigione e porterebbe direttamente al sistema concentrazionario. Si invitano i giovani a credere di essere eredi di una storia da ripudiare con ostentazione. Li si educa a odiare la civiltà. Come possiamo non vedervi una forma di controllo ideologico? Ognuno si ritira in una storia fatta di lamentele ed esige il monopolio della storia collettiva, altrimenti si moltiplicano contro di lui accuse di razzismo. Ma la storia dei popoli non può essere riscritta con l’ascia”. E’ quello che hanno fatto i Talebani con i Buddha di Bamiyan e l’Isis con gli archi di Palmira.

Di più su questi argomenti:
  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.