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Il nostro tragico Fantozzi

Girotondo fogliante sulle scene immortali dei suoi film (e non solo). Ricordo poco funebre

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il ricordo di Maurizio Crippa

“Sceglie la busta uno o la due?”. “La due!”. “E perché non la uno?”. “Il grande compositore si chiama Volfango, Amedeo…”. “MOZART!” strilla la vecchietta seduta di fianco, che non è il concorrente. Parte un ceffone megagalattico che la stende: “Quagliarulo! Si chiamava Volfango Amedeo QUAGLIARULO”. Una casalinga nel pubblico protesta: “Lei è scorretto, è stato lei”. Altro ceffone. Un Pisapia ante litteram s’indigna come un garantista democratico: “Lei è un vecchio mascalzone”. Finisce giù dalla balconata. Il “Quiz del Villaggio”, lo sketch del presentatore sadico era a metà degli anni 70, al “Gran Varietà” condotto dalla Carrà. Ma era stato sperimentato anche prima, come il folle Professor Kranz, altrettanto sadico epperò pasticcione e col cilindro. Forse la fine dei Sessanta, a “Quelli della domenica”, con Cochi e Renato, o a “Il Sabato del Villaggio”. Insomma si era ancora bambini, persino noi, e la tv in bianco e nero. Era la goduria delle prime comicità demenziali, finalmente sdoganate in una tv che era soltanto il Quartetto Cetra e Gino Bramirei. Fantozzi non era ancora apparso. Ma il lato sadico di Paolo Villaggio era già la cifra preferita, per sempre. Del presentatore pazzo godevamo i lampi di surreale genio. Ci sarebbero voluti molti anni per capire che era la parodia non soltanto di Mike Bongiorno, ma dell’autoritarismo stupido di tutta la televisione. Eco non l’avevamo ancora letto. E non sarebbe servito più.

il ricordo di Daniele Raineri

Ci sono due momenti nella storia del cinema che rappresentano al meglio la riscossa del perdente, capace di vincere a sorpresa in condizioni così avverse che ogni volta che vediamo quelle scene ci viene voglia di saltare in piedi e di battere le mani. Uno è quando John Rambo è catturato dai viet cong e dai loro perfidi consiglieri militari russi, che tra una tortura e l’altra permettono al prigioniero di parlare via radio con la base americana da cui era partito. Il subdolo funzionario della Cia che ha tradito Rambo – è il motivo per cui ora si trova nei guai – prova a rassicurarlo senza convinzione: “Resisti Rambo, veniamo a prenderti”. Al che lui risponde con voce livida: “Murdoch, sono io che vengo a prenderti”. Seguono strage dei presenti, evasione, rivincita. Nei cinema scattavano gli applausi. Ma, si sa, Rambo è un’americanata, la sceneggiatura è costruita per effetti come questi. L’altro momento è la scena del biliardo e del ragioniere Fantozzi, che mettiamo un gradino sopra quella di Rambo. E’ una riscossa che non t’aspetti e vale terribilmente di più. Il feroce Conte Catellani appena nominato direttore dell’Ufficio raccomandazioni piazza nell’atrio della ditta la statua della madre Teresa, a cui è molto affezionato, e pretende che tutti gli impiegati entrando e uscendo le rendano servile omaggio. Sorpreso per un accidente a mancare di rispetto alla statua, il ragioniere Fantozzi viene sfidato a biliardo da Catellani, che, forte del proprio rango, intende umiliarlo davanti a tutti. Quando esce dalla sala, gli impiegati atterriti lo salutano al grido di “E’ un bel direttore! E’ un apostolo!” – Fantozzi incluso. La sera della sfida il ragioniere accetta fin da subito il ruolo sacrificale del perdente, a dispetto del fatto che abbia preso lezioni notturne di biliardo da un campione severissimo che lo puniva per ogni sbaglio con colpi di stecca dolorosissimi sulle mani. Catellani, è risaputo, non tollera di perdere. E infatti tutto va secondo il programma, il direttore trionfa e a ogni tiro infierisce: “Tocca a lei coglionazzo! Si sbrighi coglionazzo! La mia è classe, caro il mio coglionazzo”. Quand’ecco: “Al trentottesimo coglionazzo e a 48 a 2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie”. “Mi perdona un attimo? Vorrei… vorrei fare un tiro io”. Fantozzi infila una serie di colpi da maestro in crescendo fino al colpo partita: il triplo filotto reale ritornato con pallino. Ragionier Fantozzi 51, Conte Catellani 49. Spostatevi americani e spostati anche tu, Rambo, coglionazzo.

il ricordo di Piero Vietti

“Ha visto i pesci rossi nella vasca?”. “Sì, e allora?”. “Sono triglie…”. Dopo anni di corteggiamenti Fantozzi è riuscito a portare fuori a cena la signorina Silvani, ha indossato un vestito troppo stretto, detto alla moglie Pina di essere stato invitato a una cena con dei dirigenti tedeschi (“anche tu sembri un dirigente”, gli dice lei salutandolo sulla porta di casa), si è messo il profumo nelle mutande e sta per cenare con la collega di cui è innamorato al tavolo prenotato da tre mesi in un nuovo ristorante giapponese. E’ la grande occasione, se solo tutto non andasse storto, come sempre. La scena è un crescendo di equivoci, dal cane della signorina Silvani, Pier Ugo, che invece di essere rifocillato dai camerieri viene cucinato e servito in tavola, passando per i piatti ustionanti lanciati dai commensali fino al divieto assoluto di mangiare con le mani, pena il taglio della mano da parte do un samurai presente nel ristorante. A tutti è capitato l’appuntamento sbagliato, in cui ogni cosa va all’opposto di come dovrebbe. Tutti siamo stati goffi come Fantozzi quella sera al ristorante giapponese, non trovando mai il momento per dichiararci, provando a impressionare la persona seduta davanti a noi ma riuscendo solo a dire “sono triglie” dei pesci nell’acquario. Questa scena meravigliosa, e il suo finale mistico, con il ragioner Ugo che nella piscina delle triglie moltiplica i pesci e “i risi”, è ancora più bella scritta nel libro. La ricordo infatti soprattutto per questo: ragazzino che gia aveva visto tutti i suoi film, trovai una copia di “Il secondo tragico Fantozzi”, restando fulminato dalla comicità della sua scrittura, ancora più esplosiva che su pellicola.

il ricordo di Matteo Matzuzzi

"Filini fissò il campo da tennis per la domenica più rigida dell’anno. Dalle 6 alle 7 antelucane. Tutte le altre ore, man mano che ci si avvicinava al mezzogiorno, erano già occupate da giocatori di casta sempre più elevata: direttori clamorosi, ereditieri, cardinali e figli di tutti questi potenti”. Scena epica, prosa sublime, voce narrante che non ha eguali. Te li vedi lì, i due, Filini e Fantozzi, che decidono di tenersi in forma alla maniera dei conti e megaconti, dei duchi e dei figli di cardinali (nessuna ironia, si badi bene. In tempi di orge di segretari cardinalizi nel Palazzo del Sant’Uffizio, l’attualità della piéce fantozziana è palese). Entrano all’alba negli spogliatoi e trovano i corpi congelati dei tennisti della sera prima, ibernati nella loro misera umanità di sottposti, ubbidienti impiegatucci come erano loro due. Il massimo della narrazione è tutto, però, nella descrizione del vestiario della coppia. Racconta il ragionier Ugo: “Abbigliamento di Filini: gonnellino-pantolone bianco di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, scarpa da passeggio di cuoio grasso, calza scozzese e giarrettiere. Doppia racchettina liberty da volano. Fantozzi: maglietta della Gil, mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo da balia, grosso racchettone 1912, elegante visiera verde con la scritta: Casinò municipale di San Vincent”. Capolavoro per meritatissimi 92 minuti d’applausi.

il ricordo di Luciano Capone

“E’ un bel direttore! Sì, è una meravigliosa persona, è un santo, un apostolo! Evviva il nostro direttore!”, gridano in coro il geometra Calboni, il ragionier Filini, il ragionier Fantozzi e tutti gli altri dipendenti al passaggio in sala mensa del cavaliere conte Catellani. C’è un po’ di quel fantozzismo in ogni luogo di lavoro, ma soprattutto nei giornali, dove spesso la posizione e la reputazione all’interno della redazione dipendono dai gusti, dalle idee e dagli umori del direttore. Più o meno tutti assecondano le passioni del capo e sono accondiscendenti verso le sue manie, ognuno a suo modo perde a biliardo con il proprio Catellani o si inchina alla statua della madre che il direttore ha fatto piazzare nell’atrio. Accade ovunque ma tanto più quanto i giornali somigliano alla Megaditta fantozziana, ovvero quando le redazioni sono grandi e il direttore è inavvicinabile. Per fortuna nessun comportamento così ignobile e umiliante avviene al Foglio, perché il nostro è un bel direttore! E’ un santo, un apostolo!

il ricordo di Giulia Pompili

E Fantozzi, e Fracchia. Ma Villaggio era soprattutto Genova, proprio come Genova era stato il suo amico fraterno, Fabrizio De André. Un rapporto, quello tra i due, che è difficile da immaginare oggi, nel recinto di una produzione artistica da ipermercato, lontana da qualunque legame con strade, vicoli, dialetti. Cresciuti insieme, l’amicizia tra Villaggio e Faber andava oltre le fedi calcistiche opposte, l’uno sampdoriano e l’altro genoano. Ma era appunto Genova, ed erano gli anni Sessanta: il capoluogo ligure che si trasformava nella Scuola autorale, uno status più creativo che biografico, fatto di personaggi che la cultura italiana dimentica e poi ricorda quando ormai è troppo tardi, Bindi, Tenco, Endrigo (“in Italia su questo c’è una morale un po’ strana, bigotta, per la quale la morte è una specie di beatificazione”, ha detto Villaggio nel 2009 a Rep). Ma insomma, poteva capitare, così, che Paolo Villaggio e Faber s’incontrassero, un giorno di novembre del 1962 nella casa di Villaggio di via Bovio, e l’uno scrivesse per l’altro uno dei testi più censurati della storia della canzone italiana, una “presa in giro del povero Carlo Martello” appena tornato dalla battaglia contro i Mori. “Al sol della calda primavera / lampeggia l’armatura del Sire vincitor./ Il sangue del Principe e del Moro / arrossano il cimiero d’identico color / ma più che del corpo le ferite / da Carlo son sentite le bramosie d’amor”. E c’è tutto, in questo testo: molto più di quel che Villaggio ha lasciato con Fantozzi.

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