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L'indagine rischiosa sulla crisi della democrazia

Giovanni Orsina

Perché la democratizzazione totale e l’abolizione dei corpi non elettivi è un giuramento che la democrazia moderna non ha mai rispettato, ma neanche mai prestato

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Pubblichiamo la prefazione firmata da Giovanni Orsina a “La fine della politica? Tecnocrazia Populismo Multiculturalismo”, il saggio di Lorenzo Castellani e Alessandro Rico (Historica, 16 euro) da lunedì in libreria.

 


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Lo dico subito con la massima chiarezza possibile, così da evitare equivoci e non prestare il fianco all’eventuale grillo parlante di passaggio: la democrazia liberale è di gran lunga – molto di gran lunga – il miglior sistema di organizzazione della vita politica che gli esseri umani abbiano sperimentato fino a ora. Ritengo l’esser nato e l’aver vissuto sotto un tale regime una fortuna straordinaria, e spero molto vivamente che la stessa sorte tocchi anche ai miei figli e nipoti.

 

Proprio per questa ragione, però, non posso che esser molto preoccupato per l’evidente stato di crisi nel quale versano oggi pressoché tutte le democrazie liberali. Certo, questa crisi è pur sempre possibile affrontarla o minimizzandone l’importanza, oppure riaffermando a gran voce i periclitanti valori democratici, nella speranza che il silenziarne o delegittimarne i critici rappresenti per essi difesa sufficiente. E non è detto che chi reagisce così non abbia ragione: magari il malessere democratico è soprattutto una conseguenza della grande recessione apertasi nel 2007 (in parte lo è senz’altro); qualche punto di pil basterà a curarla; e fra pochi anni parole come “populismo” e “sovranismo” interesseranno soltanto agli storici.

 

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Ma se così non fosse? Se così non fosse, chi voglia difendere la democrazia liberale dovrà ripercorrerne con grande onestà, senza pregiudizi né reticenze, la dottrina e la storia, alla ricerca in primo luogo degli errori e delle contraddizioni dai quali è scaturita la crisi, e poi delle possibili cure. Un percorso, questo, non soltanto più oneroso del precedente, ma pure pericoloso: se le contraddizioni dovessero rivelarsi strutturali, infatti, e di cure non se ne trovassero, molti potrebbero anche dedurne che occorrerà imparare a fare a meno della democrazia. E poiché una democrazia è tanto forte quanto lo sono i convincimenti democratici di chi la abita, questo potrebbe infine render la crisi ancora più grave.

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Questa seconda strada, a ogni modo, è quella che hanno deciso di imboccare Lorenzo Castellani e Alessandro Rico, prendendo molto sul serio le difficoltà della democrazia liberale, cercandone le radici profonde, e interrogandosi sulle possibili soluzioni. Per quel che vale, credo anch’io che sia la scelta giusta: pur augurandomi che i “minimizzatori” e i “riaffermatori” abbiano ragione, temo però che abbiano torto. Neanche la loro scelta, poi, è scevra di pericoli: nel momento in cui, malgrado i loro esorcismi, la democrazia dovesse davvero collassare, chi li segue si troverebbe del tutto privo degli strumenti necessari a comprendere – per non dire affrontare – le sfide storiche. “La democratizzazione totale e l’abolizione dei corpi non elettivi è un giuramento che la democrazia moderna non ha mai rispettato, ma neanche mai prestato”, scrive Castellani. Sì e no. Sì se, com’è il caso di Castellani (e il mio), si ha della democrazia una nozione realista, limitata, “schumpeteriana”. Quella democrazia, certo, non ha mai prestato nessun giuramento “totale”. No, però, perché nel pensiero occidentale sono circolate interpretazioni ben più radicali della democrazia. E soprattutto perché nel corso del Novecento, fuori dal mondo del pensiero e in quello della politica, le classi dirigenti democratiche hanno fatto, implicitamente o esplicitamente, una promessa forse ancora più ambiziosa del giuramento menzionato sopra. O, per lo meno, le classi dirette hanno creduto di udirla: la promessa universale dell’autodeterminazione perfetta, dell’acquisizione del pieno controllo sulla propria vita. Da cui deriva necessariamente il rifiuto tendenziale che qualsivoglia potere imponga alcunché agli individui – rifiuto che nemmeno si limita alla sfera pubblica, ma vale anche nella scuola, sul posto di lavoro, in famiglia.

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“La sovranità dell’individuo senza qualifica, dell’individuo umano generico e come tale, è passata, da idea o ideale giuridico qual era, ad essere uno stato psicologico costitutivo dell’uomo medio”, scriveva José Ortega y Gasset già nel 1930. Ma se così è, la domanda cruciale allora diventa: questo stato psicologico, che Ortega chiamava “iperdemocratico, è d’aiuto o d’ostacolo alla costruzione di istituzioni liberaldemocratiche ben funzionanti? La democrazia è una cosa talmente buona che più ce n’è, meglio è – oppure un eccesso di democrazia può essere dannoso alla democrazia stessa?

 

Castellani e Rico propendono chiaramente per questa seconda ipotesi. La lezione complessiva che può trarsi dai loro saggi è che la democrazia liberale non vive di assoluti, di premesse portate fino alle loro estreme conseguenze logiche, di integralismo e fondamentalismo. Al contrario, vive di compromessi, di pazienza per le contraddizioni irrisolte, di necessità di autolimitarsi. L’enfasi che Castellani pone sulla necessità che di fronte alla logica della democrazia si levi la logica della disciplina, ma anche sulla presenza d’uno iato incolmabile fra le promesse che la politica fa e la sua capacità di mantenerle – iato nel quale per altro mettono le loro radici i populismi –, vuole riportare la democrazia a commisurarsi con la realtà, a smettere di rischiare il molto che ha ottenuto finora per inseguire un ancor di più che, quasi certamente, rimane comunque al di là della sua portata.

 

Alessandro Rico passa per una strada diversa, ma arriva a conclusioni non dissimili. Il suo saggio affronta il nucleo utopico del liberalismo: il sogno radicale della depoliticizzazione perfetta, della sostanziale sparizione dei conflitti – con l’eccezione, tutt’al più, di quelli molto addomesticati –, e conseguentemente del venir meno della necessità del potere. Rico mostra con chiarezza in quale modo il liberalismo, portato alle sue estreme conseguenze logiche, abbia finito per ribaltarsi su se stesso. L’utopia della depoliticizzazione che le democrazie hanno inseguito nell’ultimo mezzo secolo è scaturita dall’illusione che una società aperta non avesse bisogno di alcun nucleo fondante di valori – o, più precisamente ancora, che potesse esistere soltanto in assenza di quel nucleo. Poiché però questa è, appunto, un’illusione, i valori fondanti, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra, assumendo le sembianze del politicamente corretto. E intorno a essi, inevitabilmente, sono ripartiti la politica, i conflitti, e il poere. Con l’aggravante che la politica, i conflitti e il potere, non potendo giocare a viso aperto in uno spazio pubblico che si pretendeva ormai depoliticizzato, o hanno imboccato sentieri obliqui – da qui, ad esempio, il venir meno della distinzione fra etica e politica –, oppure si sono radicalizzati. Spesso verbalmente. E talvolta, purtroppo, anche materialmente. “Lo stato liberale, secolarizzato”, ha scritto magistralmente quarant’anni fa Ernst-Wolfgang Böckenförde, “vive grazie a prerequisiti che esso stesso non può garantire”. Ancora una volta: la democrazia liberale, nella sua forma pura, condotta alle sue estreme conseguenze, divora se stessa.

 

Se così è, tuttavia, se la democrazia liberale va salvata da se stessa limitandola, resta pur sempre da chiedersi, in primo luogo, fino a dove quei limiti saranno funzionali alla sua salvaguardia, e quand’è invece che cominceranno a distruggerla. In secondo luogo, da che cosa possano essere costituiti. E infine – soprattutto – come li si possa legittimare, in un’età nella quale “la sovranità dell’individuo senza qualifica è diventata lo stato psicologico costitutivo dell’uomo medio”. Castellani e Rico accennano a qualche possibile risposta a queste domande. Non si può chiedere loro molto di più: già il fatto che si siano posti le domande giuste nel modo giusto è gran cosa, e del resto – poiché queste sono “le” domande della nostra epoca – nessuno ha trovato finora delle risposte solide e convincenti.

 

Di soluzioni purtroppo non ne ho nemmeno io. In conclusione, quindi, posso soltanto dare voce a un sospetto: che i limiti alla democrazia non li metterà il pensiero ma la storia. Smetteremo di pretendere che la democrazia liberale sia spinta fino alle sue estreme conseguenze logiche quando ci accorgeremo in concreto, sulla nostra pelle, di quanto pericolosa sia quella pretesa. Speriamo soltanto che la lezione non sia troppo dura.

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