Curzio Malaparte (1898-1957)

Benedetto Malaparte

David Allegranti

Altro che maledetti toscani. A noi ci hanno rovinato i comici, ma anche il Giglio magico e la senesità

“E tutto il sugo della storia d’Italia sta qui: che le nostre disgrazie vengono dal fatto, che i musi di bischero non son soltanto di casa, ma anche di fuorivia, e che quelli di fuorivia fan concorrenza a quelli di casa” (Curzio Malaparte, “Maledetti toscani”)

Ci hanno rovinato per primi i comici, a noialtri toscani, mica Matteo Renzi. Non quelli come Beppe Grillo, che è genovese, e fa più ridere adesso di quando avrebbe dovuto far ridere sul palco; ma tutti quegli altri, Pieraccioni, Benigni, persino Panariello. Sicché ogni volta che un toscano apre bocca, l’altro si mette a ridere. Pensa subito che tu stia dicendo qualcosa di spiritoso, anche quando sei serio; sente un’inflessione qualunque – chessò, livornese – e la scambia per fiorentina. E naturalmente si mette a sghignazzare, con mille complimenti a quell’accento che “mi fa morire!”. Grazie per l’egemonia riconosciuta, ma c’è vernacolo e vernacolo.

 

Ogni volta che
un toscano apre bocca, l'altro si mette a ridere. Ma quella simpatia potrebbe svanire
per lasciare il posto
ad altre rovine

I primi tempi che Crozza imitava Renzi pareva sortito da Ovosodo di Paolo Virzì, poi gli hanno spiegato che ai fiorentini i livornesi stanno molto simpatici, hanno pure un modo simile di ruzzare, ma Bobo Rondelli non è cresciuto a Rignano sull’Arno, basta sentirlo ragionare trenta secondi: oh, dice “dé” e noi “dé” non si dice. Tutti questi comici, Pieraccioni, Benigni, persino Panariello, c’hanno rovinato. Perché uno non può aprir bocca, senza che l’altro non coltivi delle aspettative, in un estenuante “facce Tarzan” quotidiano. Sicché viene il dubbio che i toscani non siano più maledetti. Che non siano più quelli di Curzio Malaparte, il cui meraviglioso pamphlet, introvabile, è stato appena ripubblicato da Adelphi. “Dal modo di guardare dei toscani, si direbbe che non sono mai testimoni soltanto: ma giudici. Ti guardano non per guardarti, come fanno gli altri italiani, ma per giudicarti: e quanto pesi, quanto costi, e che vali, e che pensi, e che vuoi. E tale è il loro modo di guardarti, che a un certo punto ti accorgi che vali ben poco, o niente. Da questo, e non da altro, nascono l’inquietudine e il sospetto che in tutti i popoli, italiani e stranieri, suscita la sola vista di un toscano”. Ma di che! Grazie a quei maledetti comici, con tutte quelle loro storielle da gonzi di paese immortalate in film e spettacoli teatrali, siamo diventati persino simpatici. E chissà, però, per quanto resteremo simpatici. Io me ne accorgo già ora, fiorentino a Roma, immerso in una città che sento ostile, che forse non capisco; è disfunzionale, disorganizzata, disorganica, non funziona un cazzo, è la Capitale del disagio prima che la Capitale d’Italia. Un disagio peraltro istituzionalizzato, come si capisce dai mezzi pubblici e da quando metti piede fuori dalla stazione Termini, dove il sudicio subito ti saluta e mai più t’abbandona. E hai voglia a farci il mercato centrale, identico a quello di Firenze vicino Santa Maria Novella, se tutt’intorno hai un chilometro di degrado. Ma non perdiamo il punto. E il punto è: viene un cincinnino di sospetto che quella simpatia che c’ha rovinato, quella dei comici, potrebbe svanir presto, se non è già svanita, per lasciare il posto ad altre rovine. Già si intuisce dai primi: “Ma sei di Firenze anche te?”. Viene il sospetto che a un certo punto finirà come dice Stanis La Rochelle in Boris: “Il vero, grande merito di questa fiction è che non ci sono i toscani”. Già sui treni si capiva da tempo. Prima, appena sentivano parlare fiorentino, ti chiedevano con l’aria sognante: “Ma tu conosci Renzi? Ah, questo Renzi!”. Ora, vabbè.

 

Il sindaco a cinque stelle di Livorno ne ha promesse parecchie, come i trasporti gratis per tutti, salvo
poi accorgersi
che non era possibile

La fiction è il governo, i giornali, le banche, i partiti. Siamo praticamente ovunque, in esilio, come solo noi possiamo sentirci quando andiamo via di casa. Che poi casa nostra non è tutta la Toscana ma è il nostro paese, il nostro pezzo di provincia, per quanto la patria ideale di un toscano, come già avvertiva Malaparte, è l’inferno: “Soltanto laggiù si sente a casa sua, fra gente come lui, fra pari suoi, soltanto laggiù può esser gavazziere a suo piacere, e ridere di tutto, beffarsi di tutto e di tutti, specie della gloria del mondo”. Ognuno, per intanto, ha la sua Rignano sull’Arno, in Toscana, a ognuno è caro il proprio “particulare” guicciardiniano. La mia è Lastra a Signa, 20 mila abitanti in provincia di Firenze, dove son cresciuto nella speranza di andarmene. E mica per far rotta sulla Capitale, eh! I veri provinciali sognano in grande – si fa per dire – come dimostra Matteo Renzi, che alle sue Leopolde voleva portare Pep Guardiola e Jovanotti, perché erano il simbolo di un potere pop che mai avrebbe raggiunto restando nel Valdarno. Veltroni il pop ce l’aveva già in casa, non ha avuto bisogno di far fatica. Ed è questa la differenza tra la cattiveria del primo e la bonarietà, quantomeno apparente, del secondo.

 

Non si può capire
il renzismo senza farsi un giro a Rignano,
dove strapotere
e strapaese si tengono insieme, champagne
e cedrata

Finirà così; finirà come dice Stanis La Rochelle, dopo l’Unità a guida toscana, Sergio Staino direttore (di Scandicci!) e Andrea Romano condirettore (di Livorno!), dopo la sbornia di fiorentini nei talk show, nei parlamenti e negli europarlamenti, da David Ermini a Simona Bonafè, a Nicola Danti. Dopo Antonella Manzione prima alla guida del dipartimento per gli affari giuridici e legislativi poi nominata al consiglio di stato, e tutti gli altri del “potere di Firenze”. Finirà così dopo il Giglio magico, con il Renzi di Rignano, Luca Lotti di Samminiatello, orgogliosa frazione di Montelupo Fiorentino, Maria Elena Boschi di Laterina e Francesco Bonifazi di Gavinana, che poi sarebbe un quartiere di Firenze. Non si può capire il renzismo senza la provincia, non si può capire il governo degli anni renziani, e forse neanche la diffidenza del Giglio nei confronti della Capitale, senza farsi un giro a Rignano, dove strapotere e strapaese si tengono insieme, champagne e cedrata; dove pensano, a Rignano, d’esser sempre a casa propria e di governare l’Italia come si governava Firenze. Alla fine la sconfitta del 4 dicembre è tutta lì, nel pensare, un po’ come i senesi negli ultimi anni, che non esistesse un Paese fuori dal paese. Sicché hanno imperversato, quelli di Samminiatello e Laterina, fino a essere sconfitti da se stessi. Dotati di hybris ma non di spirito, come invece il Renzi, uno che ama il cazzeggio e lo rivendica con fierezza. Uno che all’inizio, prima di dimettersi da se stesso, distribuiva spirito e c’era chi lo scambiava, scioccamente, per mancanza di gravitas. “O italiani che non amate la verità, e ne avete paura. Che implorate giustizia, e non sognate se non privilegi, non invidiate se non abusi e prepotenze, e una sola cosa desiderate: esser padroni, poiché non sapete essere uomini liberi e giusti, ma o servi o padroni. O poveri italiani che siete schiavi non soltanto di chi vi comanda, ma di chi vi serve, e di voi stessi; che non perdete occasione alcuna di atteggiarvi a eroi e a martiri della libertà, e piegate docilmente il collo alla boria, alla prepotenza, alla vigliaccheria dei vostri mille padroni: imparate dunque dai toscani a ridere in faccia a tutti coloro che vi offendono e vi opprimono, a umiliarli con l’arguzia, il garbato disprezzo, la sfacciataggine allegra e aperta”. Ora certi toscani, che sono establishment, quindi seriosi senza essere seri, dovrebbero re-imparare da se stessi. Pena diventare acidi come dei D’Alema qualunque in vecchiaia.

 

A Siena hanno vissuto per anni al di sopra
dei loro mezzi, credendosi non solo autosufficienti,
ma proprio una repubblica a parte

Sicché, ricapitolando: prima incutevamo timore per la nostra aria da spara-sentenze, poi abbiamo cominciato a fare ridere, pure troppo, poi siamo entrati nel Palazzo e abbiamo cominciato a stare sul gozzo alla gente. Qualcuno avrà pure le sue ragioni, ne conveniamo. Ma mica sarà tutta colpa del “Giglio magico”. Che dire dei senesi, con tutta quella loro autarchia bancaria e quella prosopopea della meglio genia, quella diversità antropologica con cui ci hanno riempito le tasche per non dire altro? Per anni hanno vissuto al di sopra dei loro mezzi, credendosi non solo autosufficienti ma proprio una repubblica autonoma a parte, isolata dal resto del mondo e del mercato. Come dice Henry James, “a Siena ogni cosa è senese”. Ogni cosa è ai suoi occhi intimamente senese, nel senso che non c’è spazio per le contaminazioni, ogni cosa è perfettamente autoconservata: “Dal punto di vista morale e intellettuale, dietro i muri dei suoi palazzi, il Quattordicesimo secolo – mi vengono i brividi a dirlo – non ha ancora smesso di vivere”. Erano riusciti, i senesi, a fare ciò che Fassino non era stato capace: avevano una banca. Si sono persi, in preda a se stessi, dietro il mito della senesità, secondo cui qualunque cosa accade a Siena è sempre colpa dei forestieri arrivati a depredare, a sminuire, a snaturare; ogni malanno è colpa degli “esteri”. Così son fuggiti persino gli investitori. E per esteri non si intendono quelli che abitano in Francia o in Inghilterra, giammai. Per essere esteri a Siena basta nascere fuori le mura. Persino uno di Monteriggioni – anzi, a maggior ragione! – è un extracomunitario.

 

Senesità è l’ossessione di una comunità che è riuscita a mantenere integre le sue tradizioni, a tenere in piedi il Palio, l’unica cosa che Siena non può cancellare, l’unica cosa che compatta destra e sinistra, come bene sa l’ex ministra Michela Vittoria Brambilla che lo paragonò alla corrida e si beccò l’anatema di tutti, centrodestra compreso (“Non sa di che parla!”). Quando c’era ancora la Fondazione in salute – detta anche la “mucchina da mungere” – e i soldi non mancavano, quando sul territorio piovevano 233 milioni di erogazioni (2008, l’anno record), quando ancora non erano arrivati i suicidi a spezzare l’incantesimo di una città che pareva coperta da una campana di cristallo, isolata dal mondo, appartata appunto, quando la senesità del Monte ancora non scricchiolava sotto i toc toc del mercato che bussa al portone di Rocca Salimbeni, quando insomma Siena non aveva ancora incontrato il suo cuore di tenebra era tutto più facile; anche la senesità era più facile da difendere. Ma oggi si può dire. Quella che è accaduta in questi anni a Siena con il Monte dei Paschi è la storia di un clamoroso autoaffondamento: di una dirigenza politica, economica e manageriale che credeva di poter sopravvivere a tutto, persino a se stessa, senza rendere conto a nessuno, e di una comunità che è stata felice di poter respirare oppio finché l’oppio c’era in abbondanza. Mica è finita troppo bene, questa storia dell’autarchia. Né quella di Rignano, né quella di Siena. Chissà come finirà invece l’anarchia livornese; solo lì, e non a Siena, dove sono respingenti nei confronti di tutto ciò che è anti-sistema, avrebbero potuto eleggere un sindaco a cinque stelle, Filippo Nogarin, un tipo tutto burbanza e baldanza, dopo quasi settant’anni di governo di sinistra. Prima che arrivassero Chiara Appendino e Virginia Raggi, il Noga era considerato dal M5s l’anti-Pizzarotti. Ora s’è un po’ perso di vista, ma come si capiva già dal modo in cui si presentava online, ai lettori del suo blog, il sindaco è un tipo pittoresco: “Probabilmente sono un po’ fobico o paranoico ma ho tutto il diritto di esserlo, come leggermente ossessivo, certamente istrionico e un po’ schizoide. Potrei avere una carriera come malato di mente se solo mi impegnassi un po’ ma non ho voglia di eccedere e rimango in una sorta di mediocrità psicologica più degna di una anonima normalità più che di un giubilante eccesso”. L’istrionico sindaco ne ha promesse parecchie, come i trasporti gratis per tutti, salvo poi accorgersi che non era possibile e ha rimandato tutto ai prossimi anni. Insomma, un disastro questi toscani? Meno male che ci sono gli scrittori, a riequilibrare; anche loro ora sono ovunque, e meno male, dico, meno male. Meno male che c’è Edoardo Nesi, che è pratese come Malaparte e ha il solo vizio di pensare che Prato possa essere una città e non già un quartiere di Firenze, Vanni Santoni, Sandro Veronesi, Simone Lenzi, Pietro Grossi, Fabio Genovesi, Teresa Ciabatti. Non basteranno a farci sopportare dal resto d’Italia, ma in fondo chissenefrega. “Imparate dai toscani a stimare un onore il male che dicon di voi. E tutti dicon male di noi toscani, e non ci vogliono, e ci tengono a bada, sol perché siamo, e a ragione, crudeli e faziosi, cinici e ironici… Nessuno ci vuol bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla)”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.