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A cena con Einstein e Curie, un libro (e spettacolo) rende rock la Fisica

Il romanzo di Gabriella Greison racconta di una cena, quella in occasione del V Congresso Solvay di Fisica del 1927, che è anche racconto simbolico di un passaggio fondamentale della storia della scienza, ambientato in un palazzo rinascimentale dove si può parlare della materia ma anche di piccole manie, grandi amori e grandi segreti.
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Roma. E’ come quando, durante un viaggio in treno, ci si guarda intorno e si comincia a immaginare la vita degli altri a partire da un dettaglio – una sciarpa, un tic, un libro, gli oggetti che escono dalla borsa del passeggero di fronte. Solo che non da un treno si parte, nel caso de “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, romanzo-non romanzo di Gabriella Greison (ed. Salani, ora in libreria) che racconta, tra realtà e metarealtà, la sera in cui informalmente prende l’avvio una delle grandi rivoluzioni del pensiero novecentesco, nel momento in cui le certezze della fisica classica lasciano spazio al dubbio capace di spalancare la porta su un altro mondo, quello dei “quanti”.

 

E anche se molti dei fisici protagonisti di questa storia erano affascinati dal moto ipnotico del mezzo di trasporto che arriva ovunque e ovunque evoca l’altrove, la storia parte da una fotografia, scattata il 29 ottobre 1927, al termine del V Congresso Solvay della Fisica a Bruxelles: “E’ una foto che tutti i professori di Fisica hanno nel loro studio”, racconta Greison, “si vedono due file di uomini seduti e una in piedi. Si riconosce Albert Einsten in primo piano, ma ci sono tutti i più grandi fisici dell’epoca, sorridenti o corrucciati”. Che cosa stavano facendo?, e perché tutti i professori di Fisica, oggi, tengono la foto sulla scrivania?, pensava l’autrice quando, al primo anno di università (Fisica, appunto), riteneva che il suo avvenire sarebbe stato nella ricerca e si ritrovava a immaginare il mondo nascosto dietro a quella foto: le discussioni quantistiche tra Einstein e Neils Bohr, e l’establishment scientifico tra le due guerre che inizialmente rifiutava le teorie apparentemente bislacche di quella ventina di visionari che sembravano voler leggere la materia e la luce secondo leggi ancora invisibili e incomprensibili ai più.

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Dietro l’immagine, c’è infatti il V Congresso Solvay di Fisica, tenutosi in giorni in cui si pensava che l’atomo non riservasse più sorprese. Non era così, e la sera del 29 ottobre, quella di cui si parla nel libro, i discorsi ancora respinti dall’establishment cominciarono a fluire liberamente al tavolo della cena di gala offerta dai reali del Belgio ai grandi fisici “rivoluzionari”. Greison la ricostruisce, “romanzando soltanto un po’ ”, dice, e per il resto basandosi sulle matte e disperatissime ricerche d’archivio fatte a Bruxelles, spulciando lettere, appunti, schizzi dell’epoca: quelli che i fisici stessi si scambiavano. Da quel mosaico è uscito il racconto di una cena che è anche racconto simbolico di un passaggio fondamentale della storia della scienza, ambientato in un palazzo rinascimentale dove si può parlare della materia – che si “comporta” diversamente a seconda che esista o no un “osservatore” – ma anche di piccole manie, grandi amori e grandi segreti (anche Marie Curie ne aveva uno), tappeti arrotolati compulsivamente e molliche di pane sputacchiate per noia, ansia e divertimento (da Einstein).

 

Man mano che il materiale originale trovato in archivio cominciava a comporre un quadro coerente, a partire dai foglietti che documentano lo scambio di idee anche acceso sulle nuove teorie, l’autrice aggiungeva al racconto particolari “immaginari” ma “verosimili”: le tovaglie, l’illuminazione, il dialogo basato sul vero scontro di caratteri. Si apprende dunque che Niels Bohr, calciatore dilettante oltre che scienziato, “era un estremista della diffusione del pensiero”, voleva cioè convincere tutti, e cercava di spiegare la sua visione parlando di problemi matematici “che coinvolgevano grandezze fisiche pensate come uomini di una squadra” in campo. E si scopre che Paul Langevin era “charmant”, Irving Langmuir “serioso”, William Bragg “riflessivo”, Louis de Broglie “aristocratico” in ogni gesto. Ogni fisico era consapevole delle sue paure (e ne stilava elenchi aggiornati). Molti parlavano volentieri di serpenti, stelle o dinosauri, e molti, pur essendo stati eccellenti allievi a scuola e onesti lavoratori in società, erano incapaci di conformarsi alle regole, al punto da non riuscire a mantenere un impiego ottenuto con fatica. Tutti potevano sembrare un po’ pazzi, nessuno lo era davvero (e nel libro tutti “parlano” anche a chi non ha mai capito nulla di Fisica).

 

Piccola storia nella storia, quella dell’autrice, che dopo la laurea a Milano, due anni di lavoro all’Ecole Polytechnique di Parigi e vari anni nell’insegnamento (da professoressa di Matematica e Fisica nei licei) ha preso – inaspettatamente per se stessa – la strada del giornalismo (scientifico e non) scritto, televisivo e radiofonico. E adesso, con il romanzo-non romanzo sui fisici quantistici, si riconnette alla prima passione (oltre ad arrivare in libreria, Greison in questi giorni debutta a teatro – oggi a Tortona, il 28 alla Sala Umberto di Roma e dal 4 al 10 novembre al teatro Menotti di Milano – con il “Monologo Quantistico”, spettacolo nato come costola del romanzo, diretto da Emilio Russo e sperimentato durante un lungo tour per librerie e festival la scorsa estate). Mentre si legge il libro, la fisica quantistica si manifesta nel suo essere “strumento” che ha cambiato la vita dell’uomo a cavallo dei due secoli, ispirando invenzioni che hanno rivoluzionato la quotidianità (come il laser e i telefonini). Ma l’impossibile era sembrato per la prima volta a tutti possibile quella sera a cena (non a caso la frase in esergo del libro è quella fulminante di Einsten: “Tutti sanno che una cosa è impossibile. Poi arriva uno che non lo sa e la fa”).

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