Esagerata, Marta Marzotto faceva innamorare subito
Esagerava e ti faceva innamorare subito, subito dopo eri in imbarazzo, era un colpo di vento, con dorature caffettani e paillettes, e biondaggine vaporosa e occhi da favola araba, e tu costretto a volare da tanta energia e tanta bellezza, anche se non ne avevi affatto voglia. Marta Marzotto (1931-2016) si era raccontata in un libro fastoso epico e gigione della divina Laura Laurenzi, una vita esaminata nel segno dell’immortalità. C’è tutto della mondina del reggiano, della modella improvvisata a Milano negli anni Cinquanta dispersi in bianco e nero, della sposa fulgida e contessa della dinastia di Valdagno, della casa di Portogruaro e della vitale maternità accudita di cinque figli, della fuga dalla provincia dei sogni insoddisfatti, della scoperta fatale di Roma, il viaggio negli anni Sessanta e loro seguito, la casa del Pincio, la casa di Piazza di Spagna, gli amori tra i tetti e i disamori e le solitudini e le urla e le passioni e il dolore tra affreschi, caviale e gauche, intimità con il potere, girandola delle amiche e degli amici, l’amante pittore sequestrato in agonia dalla sua propria disperazione e dalle fredde regole del potere castale, l’amante rivoluzionario e futile con il fascino “cosmico”, malattia e morte di una figlia molto amata; e poi in piano sequenza gli smeraldi a colazione con la malizia di farli vedere bene bene, e la costa sarda del nord est che è colore dello smeraldo, e il gusto bestiale ottimista e tronfio delle feste e delle cucine di casa sempre in funzione, tutta la storia tipica della generosità e dello scambio continuo, ossessivo, che fonda una due tre vite, le vite di tutti, tutti confusi ricchi intellettuali politici cortigiane cortigiani, in un mondo e in un mezzo mondo che ha qualcosa di eccezionale e di ovvio.
Nella Marzotto si vedeva la femminilità dal lato dell’abbondanza, della dispersione, dell’abbracciare il tempo e non mollarlo mai. Franca Valeri, per citare un altro libro recente, così diverso, di pensieri e memorie e commenti capricciosi e cinici, con la femminilità letteraria come urgenza e giudizio profondo ma disincantato sul secolo e sulla sua dipartita, mostra l’intelligenza pura e dura, scostante e altera, ironica e rassegnata. Ilaria Occhini nel suo racconto autobiografico ha dato senso e gusto alla vanità, alla bellezza come canone della dismisura, magari un racconto svagato, semplice, ma immerso in codici rigorosissimi di famiglia e di scelta di vita, il gioco del teatro e il teatro come gioco. Ma che donne, queste donne. Marta avrebbe meritato di più ancora, ma non fu poco come onorificenza repubblicana, del corteggiamento al Quirinale di Pertini, la carezza al ginocchio di sotto la tovaglia, l’ammicco, la rutilante girandola dei belli e ricchi e famosi che l’ha sempre obbligata all’intrattenimento della bellezza. Avrebbe meritato la Legion d’onore dell’aristocrazia ridente, qualcosa che si potrebbe definire “l’onore dei frizzi”, un attributo solenne e pungente e carnevalesco come le sue entrate, come le sue uscite, una migliore dell’altra, come il suo stare e riempire qualunque vuoto, quella cifra da tigre invadente che il pintor amante griffò nella tela e nel titolo: “La visita della sera”. Bè, ora l’eternità le sarà amica quanto lei è stata amica del tempo: molto.
dal libro alla serie