Tokyo esporta la dittatura della pucciosità (e noi tutti a caccia di Pokemon)
Roma. Dopo qualche lezione di lingua giapponese, lo studente occidentale medio a malapena riesce a pronunciare correttamente konnichiwa, ciao. Ma tutti, indistintamente, già all’inizio del corso conoscono una parola, e l’esatta intonazione con cui va pronunciata: kawaii. Non serve essere un otaku – gli ossessionati di anime e manga, i fumetti nipponici – per conoscerne il significato. Kawaii letteralmente significa carino, adorabile, puccioso. Si applica per qualunque cosa: persone fisiche, personaggi di fantasia, brand e comportamenti. L’anima kawaii del Giappone è parte essenziale della cultura nipponica moderna – inserita ufficialmente anche nel progetto del 2002 “Cool Japan” per trasformare il Giappone in una superpotenza culturale. La sua colonizzazione mondiale inizia intorno agli anni Ottanta, con il fenomeno di Hello Kitty (i gatti sono l’essenza stessa della carineria giapponese, da Hello Kitty a Doraemon, fino alla app Neko Atsume, fenomeno planetario da 5,5 milioni di download per un gioco in cui si fanno pascolare dei gatti in un giardino di casa virtuale).
E’ il Giappone moderno ad aver esportato la “nuova scienza della pucciosità”, scriveva ieri in un lungo articolo Neil Steinberg sul Guardian, e il kawaii è anche uno dei motivi del successo globale di Pokemon Go, secondo un articolo di Sophie Knight pubblicato su Foreign Policy. Chi conosce il carattere pervasivo del kawaii, insomma, non dovrebbe stupirsi della Pokemon mania: “Cos’è che rende Pikachu e i suoi amici così irresistibili? – scrive Knight su FP – La risposta più semplice va cercata nella psicologia evolutiva. Quando gli esseri umani vedono qualcosa che somiglia un bambino – occhi grandi, testa grande, arti allungati e sgraziati, goffe falcate – si innesca una sensazione di euforia nel centro del piacere del cervello (la stessa parte del cervello, per inciso, che è stimolata dal cibo, il sesso e le droghe come la cocaina). Questa sensazione incoraggia gli esseri umani ad avvicinarsi e interagire con l’oggetto carino. In passato, questa reazione ha assicurato che gli esseri umani nutrissero e proteggessero i bambini, garantendo la continuazione della specie”. Steinberg, sul Guardian, analizza soprattutto l’enorme successo di Kumamon, un pupazzone nero dagli occhi tondi e le guance rosse che dal 2010 rappresenta la prefettura di Kumamoto. Kumamon è uno yuru-chara, le mascotte che in Giappone vengono usate per personificare regioni geografiche, aziende, squadre sportive.
Meno distanti dai consumatori, che poi sono i cittadini. Per questo perfino la polizia, le Forze di autodifesa, hanno un pupazzo kawaii che li rappresenta. E per questo le campagne elettorali giapponesi sono sempre caratterizzate dalla presenza di personaggi kawaii (anche reali, come gli idol della musica e della televisione) e da mascotte che spieghino le politiche dei candidati (nel 2013 perfino l’austero Partito comunista reclutò una serie di pupazzetti incazzati e carini). I Pokemon, nati nel 1996 dalla geniale mente di Satoshi Tajiri, furono i primi personaggi kawaii a sbarcare nei videogiochi (allora era il Game Boy della Nintendo). Ora sono i primi a finire nella realtà aumentata, sempre più kawaii.