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Alle prese con il nulla da vedere dopo l’exploit di Cannes

Mariarosa Mancuso
Si torna da Cannes con gli occhi pieni di cinema – anche quando i titoli erano mediocri, il livello è superiore a ogni altro festival conosciuto. C’è una bella differenza tra la noia di certi film italiani che già a leggerne la trama ci si chiede “ma perché?”
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Si torna da Cannes con gli occhi pieni di cinema – anche quando i titoli erano mediocri, il livello è superiore a ogni altro festival conosciuto. C’è una bella differenza tra la noia di certi film italiani che già a leggerne la trama ci si chiede “ma perché?” (e subito dopo “ma chi ha scritto queste intenzioni di regia? se lo sceneggiatore ha la stessa conoscenza della lingua, e la stessa sensibilità su quel che può interessare al pubblico pagante, siamo spacciati”) e la noia di un Nicolas Winding Refn in caduta libera dopo “Drive”. Almeno in “The Neon Demon” si guardano le luci, si ascoltano le musiche, si ammira Elle Fanning brava come ingenua e un minuto dopo come femmina diabolica.

 

Si torna, e si sbatte la testa contro le uscite settimanali, una decina di titoli – ormai questa è la misura della devastazione – tra cui è difficile scovare qualcosa da vedere. Detto più chiaramente: da consigliare agli amici senza timore di ritorsioni. Con tutta la buona volontà: davvero c’è poco, il poco va cercato fuori mano, e quest’anno non c’è neppure la scusa “splende il sole, sono tutti al mare”. Come se un negozio chiudesse per mesi, e pretendesse a settembre di ritrovare i suoi clienti dal primo all’ultimo. Sarà pure legittimo andare a servirsi altrove, fare la spesa su internet, farci portare a casa dal contadino la cassetta di legno con le rape e le patate ancora sporche di terra.

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In questa terra desolata, registriamo la presenza di un kamikaze che manda in sala – poche sale, non lo troverete sotto casa – un film come “Mandarini”, battente bandiera estone (in questa veste candidato agli Oscar e ai Golden Globe come film straniero) e diretto dal regista georgiano Zaza Urushadze. No, non è una battuta, ed è anche un territorio cinematograficamente già colonizzato da “Corn Island” di Giorgi Ovashvili: la storia di un Robinson che su un’isoletta creata dal disgelo si costruisce la casetta, pianta il granoturco, si ritrova nel bel mezzo della guerra tra Abkhazia e Georgia.

 

Qui c’è un agrumeto. Piante di mandarini coltivati da Ivo, uno degli ultimi estoni rimasti. Si erano stabiliti lì nell’800, la guerra li ha fatti rientrare in patria. Quasi tutti: accanto a coltivatore diretto c’è il vicino Margus, falegname che gli costruisce le cassette, peccato manchi la manodopera per il raccolto. Dopo uno scontro a fuoco dietro casa, Margus seppellisce i morti e raccoglie due feriti esemplari. Ahmed il ceceno, mussulmano e mercenario. Nika il georgiano con la croce al collo, arruolato volontario e voglioso di tornare al suo lavoro d’attore.

 

Personaggi al servizio di un film altrettanto esemplare. “Mandarini” sarebbe uscito più vivace se non si fosse adagiato sulla prima buona idea. Serviva un po’ di cinismo – o anche solo di realismo – in più.

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