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Gucci e le sfilate unisex. Non è questione di gender, è business

Fabiana Giacomotti
I proclami del direttore creativo Alessandro Michele e i costi da abbattere. Cosa c'è sotto alla scelta della casa di moda italiana di accorpare le sfilate uomo e donna. C'entrano Zara, H&M e tutti quei marchi che hanno prodotto cambiamenti anche nei grandi stilisti.
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Non fatevi fuorviare da chi racconterà che la decisione di Gucci di unificare dal 2017 le sfilate uomo e donna in una sola (in realtà due, di classica cadenza semestrale: primavera/estate e autunno/Inverno) sono la prova ultima e definitiva della progressiva fluidificazione sessuale dell’occidente, o magari – a seconda di come la si vede – dell’Occidente corrotto. Nulla di tutto questo. Nonostante il direttore creativo del gruppo, Alessandro Michele, alla fluidità di genere creda davvero e giudichi “naturale presentare le collezioni uomo e donna insieme” perché è così che “vede il mondo”, e mandi in passerella donne e uomini dal volto e le forme sostanzialmente indistinguibili, la decisione del gruppo parte da altro. E piace parecchio: il brand ha recuperato tutte le posizioni perse negli anni della gestione di Frida Giannini e, con Valentino, è ora  fra i più imitati, osservati e copiati del mondo.

 


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Il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele


 

A dispetto del sofisticato coté sociologico con cui è stata infiocchettata la decisione del gruppo Kering, questa è soprattutto una questione di costi: il lieve apprezzamento del titolo è l’espressione di un clima di attesa che il ceo di Gucci, Marco Bizzarri, ha abilmente solleticato lasciando intendere come “semplificherà molti aspetti del nostro business” e quanto “mantenere due calendari distinti e separati sia più il risultato di un retaggio della tradizione che una scelta pratica”.

 

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La pratica, infatti, racconta da parecchi anni cose ben diverse, e cioè che mantenere linee di produzione, di commercializzazione, di presentazione, di vendita separate per uomo e donna, in tempi distanziati in realtà di poche settimane, non solo ha costi proibitivi per chi non produce negli slum del Bangladesh ma si ostina a farlo a Scandicci, ma crea un surplus di attività e di stress inutili per tutto il sistema, per di più finendo spesso per scontentare il cliente, che pur ricercando la continua novità, detesta di trovarla in vendita negli outlet a metà prezzo pochi mesi dopo averla comprata a prezzo pieno per cifre importanti.

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La corsa all’inseguimento del fast fashion – per intenderci Zara, H&M, Rinascimento, Primark e tutti i marchi che fanno non solo dell’imitazione a poco prezzo dei brand dell’alta moda, ma soprattutto della rapidissima turnazione dei capi nei negozi il proprio punto di forza – negli ultimi quindici anni ha stravolto il mercato della moda di alta gamma, facendogli perdere di vista il tema centrale del value for money. Le collezioni prodotte dai brand di grande tradizione come Gucci oggi non sono infatti le quattro tradizionali – cioè due destinate all’uomo e due alla donna –, ma una media di otto, talvolta dieci fra “crociera” (in negozio a dicembre), “pre-fall” (nei negozi a giugno), “richiami” vari e le cosiddette “capsule”, che si aggiungono alle collezioni presentate in sfilata e che, tutte, hanno lo scopo di portare un cliente sempre più disaffezionato in boutique.

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Benché i direttori creativi più abili siano sempre riusciti a produrre collezioni ben più corpose di quelle portate in sfilata, presentandole poi a puntate come una serie di Netflix e spacciando per assolute novità code di creatività pregressa, appare chiaro che dopo quattro anni questi iniziano a risentire degli sforzi e inizino la loro fase calante.

 

La moda di oggi con l’artigianalità ha ben poco a che vedere anche in termini logistici, e la decisione di Gucci ne è la migliore dimostrazione: accorpando collezioni e sfilate, potrà ottimizzare acquisti (tessuti, materiali per il packaging), produzione, magazzino e consegna, affiancando poi a questo grosso “corpus” produttivo, piccole aggiunte, svolazzi, accessoristica utile per attrarre il cliente senza imporre turn around epocali di magazzino ogni mese. E senza così rincorrere il fast fashion nella sua ultima, pericolosissima moda: il cosiddetto see now-buy now (cioè, capi di sfilata disponibili dopo pochi giorni, se non il giorno dopo la sfilata), che è quanto ha cercato e stanno cercando di fare, invece, Burberry e Prada. Se per caso non vi fosse chiaro, il primo bersaglio di Bizzarri è proprio Patrizio Bertelli.

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