Maledetti writer benedetti
Un paio d’ore dopo gli spari del Bataclan comparve su tutti i social del mondo occidentale il disegno che sarebbe diventato il marchio di #PrayForParis, un cerchio-simbolo della pace con al suo interno la Tour Eifell. Lo stile di uno stencil murale. Banalotto, a dire il vero, e infatti la sua viralità fu irresistibile. Comparve attribuito a Banksy, il più celebre degli street artist. Ovviamente non era di Banksy, che il giorno dopo negò, ma di Jean Jullien, un artista visuale francese che di solito non dipinge sui muri. Eppure il segno era street art, e la strada era il wall planetario dei social. Un caso che spiega meglio di altri esempi come il vero muro oggi sia lo spazio infinito del web. Si disegna sul web “come” se fosse un muro di strada. La notizia giunta dalla Gran Bretagna nei giorni scorsi che Banksy – l’artista misterioso di Bristol riuscito per un ventennio nella doppia impresa di divenire tra i più famosi e pagati del mondo e di rimanere senza identità – sia stato finalmente individuato è una non notizia e insieme lo è. Che corrisponda al Robin Gunningham quarantenne identificato attraverso la tecnica poliziesca della “profilazione geografica” era già stato scritto dal Daily mail nel 2008. Ma l’interesse per la sua identità risiede in ciò che Banksy è riuscito a fare in tutti questi anni, oltre a intestarsi tutte le sintesi grafiche di tutte le campagne più umanitariamente corrette del mondo. E cioè è di avere globalizzato la leggenda per cui la street art è una forma di protesta politica espressa nei modi dell’arte, e per ciò stesso inafferrabile e mutevole, nonché in grado di “appropriarsi del mondo” e di dargli nuovo senso. Molto bello. Molto utopico.
Piuttosto lontano dal vero. Sono 45 anni che la guerra tra i writer – o street artist, a seconda del tasso estetico, ma chi lo decide? – e i custodi del comune senso del pudore degli spazi comuni assomiglia a una guerra tra guardie e ladri. Ma allo stesso tempo è anche la battaglia, spesso generazionale e sociale, che le nostre società combattono con se stesse per l’interpretazione dei segni. Cioè attribuire loro i giusti significati. Lo scontro, spesso nello stile esilarante dei poliziotti di Keystone, è quotidiano. Qualche settimana fa il tribunale di Bologna ha condannato per il reato di “imbrattamento” la street artist AliCè, al secolo Alice Pasquini. Ma nel frattempo, il locale museo Genus Bononiae ha deciso di strappare alcuni suoi graffiti e trasferirli per poi esporli. Del resto, AliCè è un’artista nota anche all’estero. Invece l’altro ieri a Piove di Sacco sono stati “perdonati” alcuni minorenni che avevano disegnato su edifici pubblici di interesse storico: una bravata da ragazzi. Il 26 febbraio scorso è iniziato il primo processo mai arrivato in Cassazione contro il writer sardo-milanese Manu Invisible, per un graffito realizzato in un sottopassaggio ferroviario. Era stato assolto in due gradi di giudizio in base alla constatazione che il muro era già imbrattato anche prima, e poi pure lui è un artista conosciuto.
Arte o vandalismo? Rivoluzione o linguaggio dei segni, discorso sui segni? Alessandro Dal Lago e Serena Giordano hanno dedicato al tema un saggio rapido e intelligente, in uscita in questi giorni per Il Mulino: “Graffiti - Arte e ordine pubblico”. Dal Lago è un sociologo dei processi culturali nonché una storica firma del Manifesto, Giordano insegna all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Nella “piccola guerra civile, accanita e talvolta cruenta” – una guerra, come si legge nella citazione che apre il volume, per stabilire “a chi appartiene la città?” – il loro punto di vista è dichiaratamente orientato dalla parte dei writer. Meglio se anonimi, meglio se artisti capaci di restare fuori dal mercato dell’arte (Banksy, e non solo lui, vale migliaia di dollari). La storia inizia nel 1971 tra Bronx Harlem, quando il New York Times si accorse che le “tag” che ricoprivano muri e portoni stavano diventando innumerevoli, si moltiplicano ed evolvevano graficamente. Il primo a diventare “un writer” fu un diciassettenne di origine greca che si firmava “Taki 183”. Presa di possesso del territorio? Rivendicazione di esistenza in vita? Di diritti sociali e civili? La cultura hip hop che esce dai ghetti afro e ispanici di quegli anni è lo squillo di rivolta e l’estetica di quello che presto diventerà moda culturale, marchio di fabbrica, cifra segnica globale al pari del rap, della breakdance.
[**Video_box_2**]Ma forse l’anima resistente alle sbianchettature della street art sta in quel suo spirito giocoso, cavalleresco, nel giocare a guardia e ladri con lo spazio di tutti e con quel che ci si immagina possa o debba essere. Come qualcosa che ironicamente si “giustappone” al “grigiore, al degrado, o anche al lusso delle metropoli”, per citare gli autori. Come la celebre sfida, che sembra fuori dal tempo e dalle logiche come i Duellanti di Ridley Scott, tra Banksy e un altro noto writer inglese, Robbo. Iniziò quando nel 2009 Banksy ricoprì con un suo lavoro un graffito del 1985 dell’altro, su un muro del Canale di Camden a Londra. Andarono avanti anni a ricoprirseli l’un l’altro. Finché, quando nel 2011 Robbo finì in coma per un incidente, Banksy restituì al rivale il “suo” spazio. Sotto un ponte di città.