Highclere Castle ove si gira Downton Abbey, serie di massimo successo dove il plot è squisitamente notarile, aprendosi con un problema testamentario dei più spinosi

Le meglio volontà

Michele Masneri
Classico, biologico o tecnologico. Vita e miracoli del testamento, da quello un po’ sparagnino di Cavour a quello bistrattato (ma “cinematic”) di Alberto Sordi

Può essere classico, biologico o tecnologico: ma il testamento produce ancora tanto, oltre ai suoi effetti legali e patrimoniali. Forse anche letteratura. Ecco per cominciare una bella start-up che si chiama BoxTomorrow, si occupa di mettere insieme password, profili, foto, account, e ogni traccia elettronica del de cuius, che disporrà della sua memoria digitale come più gli aggrada. La start-up, che è stata lanciata congruamente il 2 novembre, festa dei Morti, ha sede a Ostia, evidente location di uno spirito del tempo, set di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari e di “Suburra” di Stefano Sollima. In quest’ultimo, il povero pr romano Sebastiano (Sebba), al cinema impersonato da Elio Germano, si dovrà accollare i debiti paterni e scendere a patti con la banda degli zingari cravattari Anacleti pur avendo rinunciato all’eredità.

 

Ma tra finzione e realtà, tra Ostia e cravattari zingari e non, mentre si è riaperto il processo romano per Mafia Capitale, in molti attendono con più pathos quello per l’eredità di Alberto Sordi, che si annuncia a metà febbraio più interessante e “cinematic”. Anche dal punto di vista del fatturato: l’eredità del grande attore ammontando, si dice, a cento milioni di euro, accumulati in una vita di economie leggendarie e routine nella villa disegnata dall’architetto Busiri Vici nella via, forse programmatica, intitolata all’Amba Aradam, battaglia condotta tra italiani e abissini nel 1936 talmente sgangherata da aver creato l’antonomasia (le truppe italiane erano ufficialmente alleate con alcune tribù locali ma cambiavano schieramento di volta in volta a seconda delle trattative in  corso, poi i buoni italiani impiegarono i gas tossici e fu un massacro da 20.000 morti, poi giornalisticamente “un Ambaradam”).

 

Sul Messaggero un necrologio che pareva uscito dalle pagine di Piero Chiara annunciava il decesso della “signorina Aurelia Sordi, di anni novantasette”, il 13 ottobre del 2013, e prescriveva un lapidario “si dispensa dalle visite”; perché poi, tra retropensieri, chissà che accadeva in quell’Ambaradam, doveva essere come il castello di Neuschwanstein di Ludwig di Baviera, in mano ai camerieri e ai maggiordomi e ai servi-padroni. Nel castelletto romano nei pressi di Caracalla, con le tapparelle sempre a mezz’asta, anche durante la vita dell’attore, ci sarà stata una vita sempre a mezzo lutto, un parco giochi mesto all’interno, tra barberia personale, i premi, le copie di ogni film interpretato e diretto. E poi, dopo, i servitori-padroni, come forse confermerà il processo per circonvenzione di incapace ai danni della Signorina Aurelia, forse truffata, con testamento dunque impugnato (perché i testamenti da che mondo è mondo si impugnano, come un’arma) da ben 37 parenti. La più parte sconosciuti al defunto, e almeno di quinto grado o sesto, una “class action dei cugini”, con avvocati pronti a ricevere e confrontare prove di Dna di discendenti dal ceppo di Pietro Sordi (1879-1941), divenuti improvvisamente moltissimi, come scrisse Francesco Merlo su Repubblica in un memorabile pezzo.

 

Ma se di Alberto Sordi si ricorda il funerale di popolo il 27 febbraio del 2003, con duecentocinquantamila persone in piazza San Giovanni a Roma, spesso nei testamenti di uomini illustri sono incorporate le ultime volontà in fatto di esequie (da cui si può capire anche l’uomo, diciamo). Ecco dunque a Milano e poi online una mostra tutta dedicata ai testamenti di grandi italiani. Si chiama “Io qui sottoscritto”, voluta dal Consiglio nazionale dei Notai, che da poco ha celebrato il suo cinquantesimo congresso nazionale, con una serie di atti originali già molto visitati durante il festival della filosofia di Modena (quest’anno intitolato a “Ereditare”). Si può cominciare con le volontà pauperistiche di Giuseppe Gioachino Belli, che ad Alberto Sordi prestò gli immortali versi fallici del marchese del Grillo (“C’era una vorta un Re cche ddar palazzo/ mannò ffora a li popoli st’editto/Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo”). Belli si raccomanda d’avere un funerale povero, “in forma pauperum, non solo per risparmiar gravezze e dispendi al lieve patrimonio di mio figlio, ma eziamdio e più specialmente in risguardo della umiltà e della mortificazione dovute alle colpe quali si è innanzi a Dio macchiata la mia vita”. Soprattutto colpisce del testamento del Belli la premura nel preparare una lista di esecutori testamentari a prova di catastrofe. Il poeta romano, evidentemente traumatizzato dal colera che ne aveva sterminato la famiglia, predispone una lista di 10 persone in modo che il povero figlio Ciro (Ciro! Figlio mio!), non rimanga senza tutori anche in caso di moria collettiva (è anche una lista molto “social”; ci sono le meglio personalità del governo pontificio, che magari potranno poi dare una mano a Ciro: il primo è l’illustrissimo signor Pietro Marini, adiutore della Sacra Rota, poi giù giù si passa dal signor Luigi Mazio “giudice processante nel Tribunale del Governo” al marchese Giuseppe Ossoli e tanti altri: è una lista che farebbe invidia a una Francesca Immacolata Chaouqui, insomma).

 

Sempre tra i testamenti visibili alla mostra notarile, anche Giuseppe Verdi vuole un funerale modesto, ma il risultato sarà simmetrico. Il Cigno di Busseto ordina che i funerali “siano modestissimi e siano fatti allo spuntar del giorno o all’Ave Maria di sera senza canti e suoni. Non voglio nessuna partecipazione della mia morte con le solite formule”; ma poi le esequie saranno colossali (e nei giorni della veglia, le vie attorno a via Manzoni a Milano saranno cosparse di paglia perché il Maestro non fosse disturbato dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli).

 

Giuseppe Garibaldi mette invece per iscritta una gran cura da scenografo nel progettare il proprio funerale: “Il mio cadavere sarà cremato con legna di Caprera nel sito da me indicato con asta di ferro ed un pizzigo di cenere; sarà chiuso in urna di granito. La mia salma vestirà camicia rossa; la testa, nel feretro, o lettino di ferro, appoggiato al muro, verso tramontana, con volto scoperto. I piedi del feretro o lettino assicurati con catenetta di ferro”.

 

Molti dettagli, da marmista o decoratore o geometra di rotonde invece per il bresciano Giuseppe Zanardelli, già presidente del Consiglio, papà del Codice penale, fissato con i monumenti, del resto fu colui che fece erigere il Vittoriano; e nelle sue ultime volontà ordina coerentemente un monumento bronzeo da far eseguire al mio amico Ettore Ximenes nel cimitero Vantiniano di Brescia (un’altra statua di Ximenes sta oggi nel tribunale di Brescia, mentre un grande monumento marmoreo sta in via Vittorio Emanuele II).

 

Ma ancora per Verdi, in una Milano efficiente già prima del modello Expo, il Comune faceva chiudere per le esequie le scuole di ogni ordine e grado: il maestro avrà addirittura due funerali, il primo all’alba come desiderato, il secondo, un mese dopo, alla presenza di almeno duecentomila persone, con Arturo Toscanini che dirige l’orchestra della Scala, del teatro Lirico e di tutti i cori di Milano (900 coristi e 120 strumentisti). Viene eseguito il “Va pensiero”, un grandioso carro funebre impennacchiato tipo Casamonica percorre le strade di Milano impiegando undici ore tale era la folla per raggiungere la casa di riposo per Musicisti, entro cui il Maestro sarà traslato (in una cripta).

 

L’enorme patrimonio, circa sette milioni di lire dell’epoca, va a un impressionante numero di enti e pii istituti: Asili centrali di Genova (ventimila); Stabilimento dei Rachitici (diecimila); Sordomuti (diecimila); Monte di Pietà di Busseto (campi ed edifici), Ospedale di Villanova sull’Arda (fondi e denari), e poi il grosso alla Casa di riposo per musicisti poveri, cui viene lasciato tutto il diritto d’autore del Maestro oltre a una rendita di lire cinquantamila (5 per cento).

 

Fa impressione in questi testamenti notarili l’attenzione alle obbligazioni, alle cedole, ai tan e taeg, in tempi di rendimenti molto alti, in presenza forse di inflazione, anche di una maggior educazione finanziaria. Come nei romanzi di Balzac, si sa sempre il rendimento dei titoli di stato. Alfonso La Marmora, padre della patria, ministro della Guerra e presidente del Consiglio, l’11 giugno 1876 testa a favore del “nipote marchese Tommaso Ferrero della Marmora nella condizione che il capitale di due milioni di lire, tutto espressamente concentrato in azioni della Banca Nazionale del Regno d’Italia e in cinquantamila lire di rendita nel gran Debito Pubblico d’Italia”, rendimento 5 per cento (bei tempi per i titoli di stato).

 

Cavour invece pare un po’ un pulciaro, e lascia soprattutto tanti oggettini a una nipote: “Il vaso statomi donato da S.M. l’Imperatore dei francesi all’epoca del congresso di Parigi, tutte le Croci e le Decorazioni sia estere che nazionali e il busto che mi fece il chiarissimo scultore Vela”. A un cameriere Vedel forse feticista lascia invece “l’intero mio guardaroba con tutti gli abiti e la lingerie di mia persona”.

 

Cespiti ereditari più cospicui nel caso del senatore Giovanni Agnelli, che in un testamento lunghissimo datato 13 giugno 1938 crea il nipote Gianni Jr. erede di tutto l'impero. E' consapevole di creare “una posizione leggermente diversa da quella dei suoi germani” per il nipote, ma “lo faccio unicamente a conferma della grande fiducia che io nutro nella sua assennatezza e rettitudine”, che suona un po’ wishful thinking. Così come in fondo in fondo nello sterminato testamento forse con premonizione raccomanda “ai miei cari eredi di mantenersi in tutto degni della memoria dei loro compianti genitori e nonni, di rimanere uniti negli affetti e negli intendimenti e di ricordare che il maggior conforto e la maggior forza morale nella vita sono l’amor di patria, la coesione famigliare, la rettitudine e il rispetto del lavoro umano”. Mentre si sa che con spartizioni e testamenti futuri gli Agnelli non avranno tutta questa coesione.

 

Poi più prosaicamente il vecchio senatore lascia “una rendita di lire 175 mila alla mia nuora Donna Virginia Agnelli Bourbon del Monte vedova del mio compianto figlio Edoardo, onde non abbia a trovarsi in condizioni pecuniarie personali notevolmente diverse da quelle che sarebbero risultate per lei nel caso di normale corso degli eventi di natura”. Cioè se il povero Edoardo non fosse finito ucciso in idrovolante rientrando nell’estate del 1935 dal Forte dei Marmi a Genova; oggi la rimessa degli idrovolanti Agnelli c’è ancora, sulla spiaggia del Forte, è una lounge per emiri dell'Hotel Augustus Lido, e all’epoca era il luogo del corteggio di Curzio Malaparte alla vedova Agnelli. Lì, altri testamenti virati in forme d’arte e di manifesto politico: ultime volontà come provocazione e performance, nel caso di Malaparte: il nipote Niccolò Rositani Suckert l’estate scorsa ci raccontò del famoso lascito dello scrittore di “La pelle”, che intestava la celebre casa sulla scogliera caprese a una erigenda fondazione italo-cinese, salvo che la Cina comunista non era riconosciuta dall’Italia (né da altri) e dunque l’oggetto del lascito era palesemente irrealizzabile, come dovevano sapere bene gli esecutori, tra cui un direttore del Corriere della Sera, Aldo Borrelli. Si trattava semmai, facendo testamento, di segnalare la condizione dei prigionieri politici nella Cina maoista, e “questo testamento deve aver salvato diverse vite umane” disse l’avvocato Rositani, e la casa ritornò poi in automatico alla famiglia che oggi felicemente la abita (mentre i turisti con Baedeker non aggiornati si aggirano stralunati per Capri in cerca di questi famosi cinesi, mai arrivati sull’isola di Tiberio).

 

[**Video_box_2**]Mentre  nello stesso giro estivo, a Portofino, Maurizio Raggio annunciava finalmente d’aver venduto per venticinque milioni di euro la villa Altachiara già appartenuta a Francesca Vacca Agusta, dopo la battaglia testamentaria con altri eredi. Ma prima la villa era appartenuta come si sa ai Carnarvon, proprietari del vero Highclere Castle ove si gira Downton Abbey, serie di massimo successo dove il plot è squisitamente notarile, aprendosi con un problema testamentario dei più spinosi. La tenuta che dà il nome allo show è infatti legata ai soldi e a un erede mancante (mentre nella quarta serie, l’erede designato, pur avvocato, lascerà inopinatamente un testamento ciancicato e ambiguo). Perché a ogni morte appena appena importante salta fuori un testamento tradito, impugnato, mancante: come con Lucio Dalla, anche lì parenti sconosciuti corsero in soccorso dell’eredità, lì per leggi anti-gender o forse anche per scarsa preveggenza del de cuius.

 

Però alloggiando al favoloso Palace di Montreux, l’hotel dove Dalla morì, sul Lago di Ginevra, un anziano concierge ci guidò a visitare la suite Nabokov, dove l’autore di Lolita visse a lungo, cacciando farfalle, e lì dove oggi pascolano molte lolite di seconda e terza generazione figlie di giacimenti di idrocarburi, ecco molte teiere e scacchiere e valigie del grande scrittore, tradito nelle sue ultime volontà dal figlio Dimitri, che oltre ad aver dato alle stampe libri destinati all’oblio (“L’originale di Laura”, poi ripubblicato da Adelphi), si mangiò fuori tutto e vendette le suppellettili all’hotel in cui poi visse anche Freddie Mercury (che lasciò invece un testamento molto dettagliato e come si dice inoppugnabile).

 

A volte però dai testamenti salta fuori anche qualche cosa di buono: come in quello di Mario d’Urso, gentiluomo d’affari transatlantico che ha lasciato a sorpresa all’amico Fausto Bertinotti la somma cash di cinquecentomila euro. Che i due fossero legati si sapeva, del resto l’ex presidente della Camera aveva tenuto una commovente eulogia nel funerale più elegante dell’anno, col gagliardetto del tennis club Parioli ai piedi della Croce. Però forse quei cinquecentomila servivano a sanare anche un senso di colpa: un giorno Bertinotti disse che l’avevano rovinato le troppe feste, come Jep Gambardella nella “Grande bellezza”. Un altro che di funerali se ne intendeva.

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