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Spingendo Repubblica più in là. Congetture su un destino e un lavoro

Maurizio Crippa
Perché scriva io di Mario Calabresi, cui ho stretto di sfuggita la mano un paio di volte, non saprei. Ma non è nemmeno essenziale spiegarlo. Si scrivono articoli sui protagonisti di importanti movimenti ai vertici dei giornali.
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Perché scriva io di Mario Calabresi, cui ho stretto di sfuggita la mano un paio di volte, non saprei. Ma non è nemmeno essenziale spiegarlo. Si scrivono articoli sui protagonisti di importanti movimenti ai vertici dei giornali (lui è “figura di primo piano del nostro giornalismo, cresciuto all’interno di Repubblica, ove ha ricoperto i ruoli di caporedattore centrale e di corrispondente da New York”, nota del Gruppo L’Espresso). Si formulano congetture sulle scelte, sul futuro delle linee editoriali che conteranno qualcosa, forse, nel paese. Però ci sono occasioni in cui tutte queste cose si intrecciano – e si vorrebbe sfumarle per qualche istante in secondo piano, in dissolvenza – con le persone e con la loro storia, con le loro culture. E prima di congetturare si prova a spiegarsele, le persone e le storie. Mario Calabresi oggi ha 45 anni (Ezio Mauro ne aveva due in più quando sostituì Scalfari), il suo è un ritorno nel Gruppo. Iniziò lì; poi gli anni di apprendistato a New York, ma sotto l’insegna della Stampa. E gli anni di rifinitura, o per passare oltre la linea d’ombra, a Repubblica: caporedattore centrale e inviato. Nel 2009, a Torino, sembrò la nemesi morbida di un altro colonnello spigoloso, Giulio Anselmi. Non è sempre facile farsi perdonare il destino di enfant prodige, in italiano di solito mal tradotto con miracolato. E l’Italia è un paese siffatto per cui le storie e i nomi hanno la memoria lunga e i rancori pure.

 

Mario Calabresi è un uomo alto e non smilzo. Non un Cavaliere dalla Triste Figura. Ha spalle larghe, bastanti – lui lascia intuire – per portarsi addosso un cognome e una storia che è tutta sua, ma giocoforza è di tutti, anche di chi per età ritiene di esserne immune. Se l’è presa in spalle, “Spingendo la notte più in là” è un bel libro e bel titolo, ma soprattutto è un lavoro fisico faticoso. Non tutti glielo riconoscono, né hanno apprezzato che sia cresciuto nella casa che era stata idealmente la stessa di Camilla Cederna. A certi cavalieri tocca fare di sé il superamento simbolico di quel che è di tutti: aggirare la storia o farne la sintesi. Vittorio Feltri è come sempre il più grossolano: “Quanto a capacità di galleggiamento, in confronto a lui un sughero diventa un sasso”. Ma Feltri è il ventriloquo senza filtro della pancia italiana. Andare nel giornale che non è stato amico alla tua storia, il giornale esercito che per vent’anni, gli ultimi, è stato poi l’attore di una guerra civile – non cruenta, ma violenta sì – una guerra cui hai preso e non preso parte, è un modo onesto di iniziare a chiuderla.

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[**Video_box_2**]Una veltroniana passione per i giovani e gli incontri nelle scuole (il suo ultimo libro: “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”). Un ammirevole, renziano ante litteram, ottimismo del fare, della narrazione di chi riparte e non s’arrende (“la fortuna non esiste”). Una sua visione un po’ immaginifica del giornalismo “next”. Come l’astronave ipertecnologica “all’insegna dell’assoluta trasparenza” che ha varato per la redazione della Stampa, o le scommesse digitali, compresa quella di una piattaforma tutta dedicata alla religione: parlano di promesse rimaste un po’ lì, promesse con il naso lungo di un modo di intendere l’informazione eternamente in mezzo al guado. Le congetture politiche riguardano altro. Normalizzerà il giornale partito? C’è chi lo fa troppo concavo e convesso al potere, chi troppo uomo di potere. Ma sono bellurie di chi finge i giornali siano case di vetro. Il più schietto, sempre Feltri: “Bravissimo nel prevedere tutto ciò che è prevedibile. E’ probabile che Repubblica tenderà a perdere gradualmente la sua coloritura storica, passando dal rosso mattone al rosa Renzi”. Conta di più, se e come saprà segnare una discontinuità nel giornale che è nato negli anni di piombo e che della guerra civile italiana è stato testimone e prim’attore. E’ un borghese perbene, ma non un borghese torinese, nel senso azionista di cui da quarant’anni Rep. presume di avere raccolto il polveroso testimone. Passare dalla direzione di un quotidiano importante alla direzione di un giornale-partito, portaerei di una visione del mondo, pertiene alla professione e alla carriera. O forse al destino.

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