Non solo Anastasyia. Un’altra “cattiva” rischiò la sedia elettrica nella New York di fine ’800. Era italiana
Storia della condanna di Maria Barbella, sedotta e abbandonata. Il processo, anche mediatico, che subì, assomiglia molto a quello cui stiamo sottoponendo la fidanzata di Luca Sacchi
Maria Barbella, sarta, vent’anni e passa, emigrata a New York dalla fine del mondo che al suo tempo era la provincia di Matera, sarebbe morta carbonizzata, sulla sedia elettrica, prima donna della storia, nel 1896 o forse ’97, nel carcere di Sing Sing, se non fosse intervenuta a salvarla Cora Slocomb, filantropa, femminista e attivista, sposata con un aristocratico friuliano, Detalmo Savorgnan di Brazzà, come lei filantropo, attivista, pacifista, umanista e naturalmente molto ricco. Aveva letto, Cora, la storia di Barbella sul New York Times, e aveva capito che la ragazza aveva contro di sé stampa, giustizia, tutto il paese, che serbava nei confronti degli emigrati, specie se italiani, un disprezzo tanto radicato e forte da essere diventato cronico.
Nel 1889 nello stato di New York era stata introdotta l’esecuzione per mezzo della sedia elettrica, ideata l’anno prima da Alfred Southwick, un dentista di Buffalo. Il primo a finirci sopra era stato un droghiere, William Kemmler, uxoricida reo confesso che mentre veniva portato in galera aveva detto: “Mi metteranno il nodo scorsoio al collo”. Non era aggiornato sui “progressi” della pena capitale. Nell’aprile del 1895, quando Barbella ammazzò Cataldo, l’opinione pubblica discuteva ancora molto animatamente di quell’orrore. Il caso di Maria, durante il primo processo, aveva diviso l’opinione pubblica: in molti si erano schierati dalla sua avendo capito che Maria aveva tentato di difendere il suo onore, che aveva agito esasperata dalle continue violenze e abusi domestici che Cataldo le faceva subire, e che era una donna troppo poco istruita per non essere succube dei dettami della sua comunità, secondo la quale una donna che non sposava l’uomo che faceva l’amore con lei era perduta per sempre. I giornali avevano scritto qualsiasi cosa. Erano andati a rimestare nella storia della sua famiglia, avevano trovato dei casi di epilessia e allora avevano scritto che i Barbella erano tutti pazzi; avevano ricordato che “gli italiani hanno un carattere violento”, che a difenderla erano soltanto “filantropi che predano i carcerati” (in quegli anni gli enti che combattevano contro la pena di morte ricevevano lo stesso trattamento di certe Ong che certi alti rappresentanti delle nostre istituzioni hanno definito “taxi del mare”). Cora era arrivata a New York con suo marito appena dopo il trasferimento di Barbella a Sing Sing, e da allora aveva scritto lettere a diplomatici, ambasciatori, direttori di giornali e aveva organizzato la sua controffensiva, ottenendo la riapertura del caso e chiedendo che a Barbella venisse concessa la grazia. In meno di due anni, aveva tirato fuori Maria dalla prigione. Pulita.
A processo ci erano finiti semiologi, frenologi, testimoni più o meno credibili, medici lombrosiani che avevano tentato di dimostrare che Maria, pur essendo epilettica, aveva ucciso con determinazione, del tutto cosciente, e quindi non avrebbe meritato che la pena capitale. L’accusa era riuscita persino a sostenere che Barbella era colpevole non solo di omicidio, ma pure di aver permesso a Cataldo di sedurla e violentarla, d’essersi fatta insidiare per avere così poi un movente per vendicarsi del suo aguzzino e farla franca. Di essere un’impunita seduttrice e che anche per questo andava punita: lasciarla libera avrebbe significato far credere a tutte le donne americane che sgozzare il proprio amante non fosse un crimine, ma una tutela. La stampa aveva dato il peggio di sé. Qualche testata, tuttavia, aveva raccolto testimonianze capaci di inquadrare il fatto in una più larga e responsabile disamina che coinvolgesse i diritti umani, il sistema giudiziario, il problema dell’integrazione e la necessità di dare agli Stati Uniti, sul fronte della pena di morte, una compattezza – un ex giudice della Corte suprema aveva detto al Recorder: “Da noi, la ragazza non correrebbe alcun pericolo, sconterebbe una pena più umana”. Per il resto, era stato tutto un “gli occhi di Maria hanno una luce selvaggia”; “quanto costa all’America la detenzione di Barbella?”; “italiana, la semplice epilessia non ti salverà”. E infatti a salvarla era stata l’ostinazione di un’aristocratica, disgustata da come tutti i peggiori mali del suo tempo fossero confluiti in un processo e nel racconto che ne aveva fatto la cronaca; dalla trasformazione di un’imputata in un’occasione di sfogo collettivo; dalla lettura dei fatti sempre ingigantita dal portato antropologico e culturale; dall’ostinazione nel voler rintracciare un tratto in un gesto; da come la comunicazione avesse manipolato la giustizia.
La storia del processo, dell’amicizia tra Cora e Maria, della New York di quegli anni, l’ha raccontata Idanna Pucci, bisnipote di Cora, in un libro pubblicato molti anni fa da Giunti, “La signora di Sing Sing”. A Ferrandina c’è un murales dedicato a Maria, e alla sua storia che non ha smesso di ripetersi, come se non avessimo altri strumenti per trovare un assassino che non siano la fisiognomica e la vox populi.