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Il male assoluto dei serial killer e la nostra coscienza contemporanea

Marco Archetti

Le vite di Ted Bundy, Bruce McArthur, Vitalino Morandini rappresentano il nostro nemico più puro e insensato

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Scheletri nell’armadio? Molti, in senso letterale. E cadaveri. Ma anche manichini. Per la precisione: manichini rubati da negozi dismessi.

Nell’inventario di dettagli morbosi e spaventosi in cui, come sempre, si trasforma un serial killer – fase fondamentale della sua solidificazione mitologica – proprio questo e non un altro fu l’aspetto che mi turbò più profondamente. Mi riferisco a Jeffrey Lionel Dahmer, noto come il mostro di Milwaukee, diciassette omicidi in un decennio e condanna a 957 anni di galera. A colpirmi non furono tanto le sue orride carneficine, i sadismi ignobili, le crudeltà spaventose. Ma quel dettaglio. Non si dica “la parte per il tutto” perché qui vale l’esatto contrario, qui la parte significa qualcosa proprio perché non è il tutto, non ha a che vedere col tutto, è intransitiva rispetto al tutto. Da una parte gli strangolamenti, le efferatezze, la necrofilia, il cannibalismo, gli squartamenti, i trapanamenti di cranio e ogni genere di pratica immonda. Dall’altra un atto come un furto di manichini, atto certamente maniacale e inclinato verso una patologica eccentricità, mettiamola così, ma allo stesso tempo anche innegabilmente puerile, sconclusionato e naïf più che orrorifico, sì anomalo e già certamente rivelatore di qualcosa, ma in realtà, a pensarci bene, di cosa davvero? Eppure è qui che il gioco si fa. E’ qui che si innescano le domande in cui martella il cuore della nostra accanita curiosità, della nostra esigenza di sapere, il forbito pettegolezzo della conversazione in merito, magari in tv insieme agli esperti o dalle colonne di un giornale, cioè niente di più che una lacuna tirata in lungo e rappezzata con svariate superstizioni individuali e collettive, più o meno sofisticate, più o meno becere. E poi con i serial killer il gioco è facile. Sembrano lì per quello – carne semplice per la grande zanna riduttivista. Ma cosa accade davvero nella mente delirante di un assassino seriale? Come si arriva a un omicidio partendo dal furto di un paio di manichini dal retro di un negozio dismesso? E da un omicidio a una serie di omicidi? La vita di un uomo non si può spiegare con una parola, riteneva Orson Welles. Eppure, alla fin fine, per me, nel gioco delle associazioni mentali, Jeff Dahmer è una cosa sola: manichini rubati. E’ esattamente in quella parte che il tutto non smentisce, ma col tutto nemmeno concorda, che io l’ho sempre identificato. Poi, per carità, è anche altro, per esempio il dubbio che fatalmente ne deriva: magari una parola non racconta un uomo, ma un uomo non racconta tutta l’umanità?

 

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Cominciò in provincia di Bergamo, nell’inverno del 1955. Vitalino Morandini era nato quarant’anni prima ad Adrara San Rocco, una manciata di anime sul fondo di una valle. Era noto per essere mite e morigerato al punto da meritarsi il soprannome di “Angel” (La sentite? Vero che la sentite? Non dite di no perché è impossibile. E per quanto sia molesta, per quanto nuoccia alla compostezza di ogni ricostruzione, ecco la musichetta risaputa, ecco l’inevitabile e fessa crucialità retrospettiva della narrazione-tipo del serial killer che serpeggia tra le righe... Come la si aggira? Non la si aggira). In quarta elementare dovette interrompere la scuola, era sveglio e intelligente ma occorreva una mano in casa, nei campi. Poi nel 1938 andò a combattere in Jugoslavia, e da là tornò un po’ cambiato, vivendo da sbandato fino alla Liberazione. Un giorno rubò al cugino un asino, tre capre, undici pecore e 240.000 lire. E il cugino lo denunciò. Così Vitalino Morandini scontò sei anni di prigione in Sardegna. Quando uscì, il 9 novembre del 1955 si vendicò: lo uccise ad accettate e lo legò per i polsi a una mucca, inscenando un incidente cui, per qualche tempo, gli inquirenti credettero. Dieci giorni dopo, sempre in provincia di Bergamo, andò in fiamme la cascina Sprovo: persero la vita marito, moglie e figlio. Il 28 dicembre, a Grone, ancora una volta in una cascina, vennero straziati a picconate i coniugi Oberti, ma la vita dei figli venne risparmiata. Il 23 gennaio, alle due e mezza del mattino, in centro a Pontoglio, provincia di Brescia, venne sterminata una famiglia di tabaccai. “Sangue fin sopra il soffitto”, diranno i carabinieri, poco prima che le indagini si mettessero in moto, gli inquirenti collegassero i puntini e Vitalino Morandini venisse arrestato. “La testa mi diceva che dovevo uccidere”, confesserà. “Era scritto”. Condannato a quattro ergastoli, non li sconterà mai, perché si toglierà la vita strangolandosi con un asciugamano nel carcere di Pisa in cui stava attendendo di essere trasferito in quello di Porto Azzurro.

 


    

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L'immagine di Vitalino Morandini sulla copertina del libro “È come tirare il collo alle galline. I dieci omicidi di Vitalino Morandini il «mostro di Pontoglio»” di Roberto Trussardi

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Vitalino Morandini è considerato il primo serial killer della storia italiana. Ne scrissero in tanti, anche Giorgio Bocca. Scorrendo le cronache del Giornale di Brescia di quei giorni è inevitabile confrontarsi con una duplice sensazione: da un lato quella di trovarsi di fronte a una narrazione manierata, maliziosa e di sensazione (gli aggettivi sempre anteposti al sostantivo, la drammaturgia enfatica sulle indagini e i presunti sospetti, le domande senza risposta & la bigiotteria retorica immaginabile), dall’altro quella di seguire, riga dopo riga, un racconto che trema, che teme se stesso, che resta sospeso su conclusioni di cui forse non vorrebbe dar conto, nel presentimento che qualcosa verrà presto svelato – qualcosa che non ha avuto uguali in precedenza. E anche qui, ecco il dettaglio con cui Orson Welles non fa pace, ecco la parte che discorda col tutto, granello di insensatezza contro macigno di efferatezza, perché gira e rigira anche i peggiori farabutti alla fin fine ti sorprendono con un manichino rubato: Vitalino Morandini non sopportava il turpiloquio. Peggio: arrivava a rimbrottare chi ne facesse uso. Un ipersensibile, insomma. Un pudibondo con la scure in mano. E’ in nome di questi barbagli illogici e implausibili che il male assoluto incarnato da una sola persona si fa emblema e diventa un caso collettivo? E’ questa irrazionalità a dominarci e ad affratellarci nel nome del contrario? Desiderosi di capire, godiamo con identica morbosità della rassegnazione al non capire. Per questo, del mostro, ci affascina l’insondabilità: perché ogni verità su di lui è quasi sempre una verità a posteriori, una verità da retrovisore, una verità non del tutto vera. E di manichino in turpiloquio sussultiamo all’idea che possa essere anche una verità su di noi, sia che ci pensiamo vittime, sia che ci immaginiamo carnefici.

 

  

“Noi siamo i vostri figli, siamo i vostri mariti”, ha detto una volta Ted Bundy, pluriassassino stupratore e necrofilo carismatico che scambiò sua madre per sua sorella e i suoi nonni per i suoi genitori (glielo fecero credere) e che tra il 1961 e il 1978 uccise barbaramente – decapitandone più d’una – almeno trentacinque donne tra Colorado, Idaho, Florida, Washington e California. Arrestato, evase due volte dal carcere. In un caso arrivò a dimagrire al punto da smontare una plafoniera al neon, infilarsi nel controsoffitto, percorrere intercapedini labirintiche e uscirsene, libero, all’aperto. Dopo infinite vicissitudini processuali morì alle 7.15 del 24 gennaio 1989 sulla sedia elettrica ma, ci si creda o no – ecco di nuovo il dettaglio che discorda, ecco la mia ipersensibilità per l’emblema antitetico –, a ventitré anni divenne un eroe perché salvò una bambina che stava annegando e per alcuni mesi lavorò in un’Assistenza anti-suicidio. Ora, a un trentennio dall’esecuzione capitale, Netflix gli dedica una serie dal titolo “Conversation with the Killer – The Ted Bundy tapes” e promette registrazioni inedite, interviste raggelanti e contributi supplementari. “Non affezionatevi a Ted Bundy” ci fanno sapere. Spiacenti, già fatto: tra romanzi, film, citazioni in brani musicali, sceneggiati, puntate di serie tv e una citazione perfino in “South Park”, Ted Bundy è da tempo una consolidata realtà dell’immaginario. E le urla scandite “Burn Bundy burn!” della folla che ne attendeva l’esecuzione sono proprio il cortocircuito ideale, il sigillo più significativo del racconto che ogni serial killer impone a ognuno di noi attraverso lo stravolto impeto d’odio di una massa che fa di tutto per somigliare al carnefice.

 

Dei serial killer ci impressionano la turpe esigenza, l’inestinguibilità della sete, l’irreversibilità della degenerazione, l’intransigenza metodica nella selezione delle vittime, la follia del rituale, ma soprattutto la portata della sfida al mondo. La tregenda sanguinosa cui non assistiamo ci tormenta, ci incendia la fantasia di riverberi cupi e demoniaci. Nel caso di Ted Bundy ci fanno venire i brividi anche certi deplorevoli puntigli di contabilità: la Corte lo accuserà di trentacinque omicidi ma lui li negherà tutti, poi rettificherà e ne rivendicherà solo ventisei. Come se facesse la differenza. Come se la correzione numerica ottemperasse a un atto di perequazione – del tutto intimo, segreto e a noi sconosciuto – nei confronti di qualcosa di custodito e da preservare, inabissato in chissà quali sargassi della sua anima buia. Buia e apparentemente inoffensiva, perché per avvicinare le sue vittime si fingeva debole e indossava un gesso al braccio: con Ted Bundy, insomma, entra in scena il Male che recita la Normalità. “Avreste potuto essere un buon avvocato,” gli dirà il giudice Edward Cowart. Vero. Avrebbe potuto essere anche un politico, il Partito repubblicano lo considerava una luminosa promessa. Avrebbe potuto, col suo fascino e la sua parlantina, godersi la luce della vita, e uno per uno i privilegi concessi in dono a chi è benedetto da tutte le qualità. Invece, come raccontò in un’intervista l’ispettore Paul Decker, “fu il più perverso dei predatori, agiva secondo un piano militare”.

Tre settimane fa, in Canada, a un anno dal fermo, il 67enne Bruce McArthur è stato condannato all’ergastolo. Accusato di otto omicidi, stava progettando il nono. Era un giardiniere. Occultò i resti delle sue vittime nelle fioriere di un cliente del Leaside di Toronto.

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