Welcome to Brescia

Michele Masneri

Linda e organizzata. Prima in Italia per immigrati residenti, ma anche per reddito e industria. Viaggio nella ex città bianca dove ha vinto il Pd

Era più bianca del bianco. Brescia, leonessa d’Italia (roar), capitale di Papa Paolo VI, di Martinazzoli, di Bazoli; di una Dc progressista e tormentata, nel nitore accecante del Botticino, il marmo usato per il Vittoriano – il presidente del Consiglio ottocentesco Giuseppe Zanardelli lo volle fatto con la montagna bresciana, piuttosto del romano travertino. Si diedero dunque i marmi alla patria.

 

Piazza della Vittoria, candore razionalista-fascio. Una prosciutteria sotto i portici, commessa nerissima, del Ghana. “In questo locale si segue una dieta religiosa” avverte un cartello. “Mangiamo ogni ben di Dio pregando di non ingrassare”. Burloni. Lei signorina ha votato? No, dice Patrizia, ghanese appunto, ma di accento gutturale di tribù bresciana. “Perché sono residente a Montichiari”, Monticiare, in bresciano nel testo. Brescia la bianca, oggi nerissima – 18,5 per cento di extracomunitari sul totale della popolazione, tra le prime in Italia. Insieme ad altri primati: per reddito (riconquistato dopo crisi profonde), per il manifatturiero. E per voti al Pd: 35 per cento. Quasi da tempi d’oro renziani.

 

Trentacinque per cento sono anche gli iscritti migranti della Cgil. “Migranti per modo di dire, per noi sono bresciani, hanno tutti la cittadinanza”, dice al Foglio Silvia Spera, segretario della Camera del lavoro locale. Dal bianco al rosso: palazzo Cgil, accanto al Frecciarossa, centro commerciale un po’ in disarmo, ragazzi di mille colori si aggirano per cinema, fast food, ricariche telefoniche. Le comunità più numerose di iscritti? “Pachistani, e marocchini” dice Spera. “La cosa più interessante è che adesso vediamo le seconde generazioni: abbiamo i capisquadra, gli ingegneri – i pachistani sono dei geni della matematica. Per la commemorazione della strage di piazza Loggia il mese scorso il discorso più bello era quello di una ragazza di seconda generazione”.

 

Brescia bianchissima: forse anche grazie alle migliaia di led appesi per le strade, che la utility A2A ha disseminato in ogni dove: i palazzi brillano, gli asfalti risplendono. Quasi troppo. Sarà che la campagna elettorale è appena finita, è la notte del martedì successivo al trionfo del sindaco Emilio Del Bono, che ha rivinto al primo turno col 54 per cento, e operai dipingono ancora alacri strisce pedonali di fronte al quartier generale della candidata sconfitta in piazza del Mercato. La mattina dopo, sotto un acquazzone, giardinieri tosano giardini più verdi di villa Certosa. Più che manutenzione, è bullismo. Venendo dai canyons romani, tra pecore cinghiali e gabbiani-tigre, pare la Svizzera, il Lussemburgo. Ma più bianco. Il palazzo Martinengo che fa da quinta alla piazza del Mercato è smaltato come un piatto di Masterchef. E’ stato scelto come fondale per la manifestazione di chiusura di Matteo Salvini. “Ci ha fatto perdere venendo qui!” dice la candidata Paola Vilardi, avvocato, team Mariastella Gelmini, iscritta a Forza Italia dal ’94, un generico fervore antigender, slogan non brillantissimi (“una signora Brescia”); ci riceve nel suo studio, dice che insomma Salvini venendo “ha ricompattato tutti a sinistra” e che invece il sindaco uscente e rientrante Del Bono “male non ha fatto, non si può dire che abbia fatto cazzate”, e però nel frattempo “Forza Italia è crollata al 7 per cento”. E i Cinque stelle? “Ma a Brescia sono di sinistra!”. Pure. E però “la città ha tanti problemi”. Quali? “Beh, per esempio l’immigrazione”. Ma non sembra gestita male. “No, infatti, però insomma, vada al Pam, sembra una casbah!”. Il Pam, pieno centro, casse automatiche, locker Amazon per ricevere merci, veramente pare San Francisco. “Gli immigrati votano tutti Pd, perché il Pd è strutturatissimo in città. E’ sempre stata una città di sinistra!” Poi, resasi conto dell’enormità, specifica: “Sinistra democristiana”.

 

Ragazzi di mille colori si aggirano per cinema e fast food. Da Pakistan e Marocco le comunità più numerose di iscritti alla Cgil

Di sinistra democristiana è la festa del sindaco riconfermato: piazza della Pallata, centro medievale – a terra, un opus compositum di asfalto drenante a effetto sampietrino – una signora in bici con cestino di vimini; ragazzi di colore seduti urbanamente su una fontana. Ma a mezzanotte son già tutti a dormire davanti all’ufficio col faccione di Del Bono; perché a Brescia la mattina si lavora, usa così, e lui cinquantenne, Pd con juicio, tendenza Margherita, ha tutti gli usi punitivi del bresciano in purezza: in vacanza va a Stadolina, frazione di Vione – i bresciani fanno queste vacanze di montagna masochistica, i Bazoli vanno a Ponte di Legno, Davide Dattoli, lo startupper bresciano-globale, va sul Monte Orsa. Daje a ride. Saint Moritz neanche a parlarne. “Ma non è vero che mangio solo patate lesse”, ci dice il sindaco nello studio di palazzo Loggia, una consolle con su due foto: lui col Papa, e lui con Mattarella (il Papa per primo). “Piuttosto mi piace molto la gallina lessa, tanto che la mia mamma per il mio compleanno mi fa la gallina invece della torta, con le candeline”, dice soddisfatto, allegro ma non ilare, sorvegliatissimo, insomma bresciano.

 

Dialoga con tutti, dai centri sociali all’A2A. E naturalmente integra, Del Bono. Integra e reprime. Il Carmine, quartiere un tempo sgarrupato, poi sottoposto a movida gentrificatrice, infine normalizzato, ha visto una classica politica dei due forni: le pirlerie (a Brescia lo spritz si chiama Pirlo), e la pula (la polizia). Caserme e baretti. Il risultato: “la polizia locale ha fatto più arresti di quella di Stato a Brescia, lo sa?”. Il risultato è che la percezione di sicurezza è evidente. “Il fatto è che l’immigrazione esiste – riflette il sindaco – ma esige risposte articolate e complesse. La sinistra tende a negare il problema, e la destra a cavalcarlo. Qui a Brescia, però, ai proclami non crede più nessuno”. Forse perché l’unica religione è il laurà. “Siamo più preparati. Siamo alla seconda generazione”. “Gli immigrati sono entrati nella classe dirigente: abbiamo laureati, abbiamo medici”. “Immigrati di seconda e terza generazione stanno facendo emergere una nuova borghesia” ha scritto il Monde in un reportage recente celebrativo della Leonessa, che ha inorgoglito i bresciani (per quanto si può inorgoglire un bresciano, cioè sommessamente).

 

Tutti insieme, pachistani, egiziani e bresciani, vogliono far parte del nuovo benessere, dei nuovi anni 80 sulla strada per Milano. Ma a Brescia

Quello della seconda generazione è un mantra che si sente in continuazione. Araldica dell’immigrazione. Tranquillità (come quando si sente: psicofarmaci di seconda generazione). Il peggio è alle spalle. “Gli anni brutti sono stati i Novanta” dice il sindaco. La prima ondata migratoria, quella tosta. Arrivata mentre Brescia arrancava colpita tipo San Sebastiano: finiva la Dc – curatore fallimentare Mino Martinazzoli, ultimo segretario, un signore che nel tempo libero scriveva saggi su Manzoni, uno che faceva le grandi opere e poi non andava a inaugurarle perché lo trovava inelegante e populista, chissà che direbbe oggi). Poi la crisi del tondino – i Lucchini, col leggendario maestro elementare che era diventato il primo acciaiere d’Italia – venduta ai russi. Poi la finanza allegra: i capitalisti coraggiosi, i furbetti, col Chicco Gnutti calato dalle valli bresciane, la Hopa, la Telecom. Ci fu una famosa scena, si narra, alla Sosta, il ristorante dell’establishment bresciano, dove uno dei tanti azionisti rovinati un giorno scorse il Chicco e gli mollò un ceffone, cosa inusitata da queste parti (qui non usa, come direbbe il milanese Maran). Oggi la sede della Banca Popolare di Brescia, la Bipop che tentò di giocare a Wall Street, è lasciata lì ad arrugginire tipo ecomostro, tipo Vele di Scampia in mezzo a palazzine liberty iper restaurate, tipo perenne monito.

 

Ma ora la crisi è finita, i soldi son tornati. Brescianamente. Cioè “dal manifatturiero” dice il sindaco. “Primi in Italia”. Poi c’è tutto il soft power perso negli anni e adesso ricostruito piano piano: “la città cambia pelle”, e cioè: il boom del turismo, il foro romano, Christo a impacchettare artisticamente un’isola nel lago non più sexy d’Italia, grazie ai buoni auspici di lady Beretta, la Miuccia Prada della Val Trompia; i Mimmo Paladino che allignano nella incolpevole piazza Vittoria.

 

“La cosa più importante è che stiamo crescendo demograficamente”, dice contento il sindaco. Facile dire: certo, son tutti immigrati. La cancellazione della razza bianca. La pulizia etnica. “Macché. Stanno tornando i giovani che erano andati via. “Entro il 2025 torneremo ai 215.000 abitanti che rappresentavano il massimo raggiunto da Brescia negli anni d’oro” si esalta (brescianamente, cioè con molte cautele) Del Bono. “L’età media poi si sta abbassando: siamo intorno ai trentacinque anni”. In effetti si era notato girando, calpestando cautamente il sampietrino lindo e l’asfalto perfettamente posato, per non rovinarlo. Molti giovani, molti negozi che indicano le gentrification giuste – le bicicletterie, le caffetterie che si chiamano “Estratto”, “Pressato”, con caffè da 3 euro e cinquanta. Nella stazione, minisupermercato bio, quinoa e parcheggio per biciclette multipiano. E scena musicale fiorente: nomi come Coma cose, Frah Quintale, Joan Thiele, nuove leve bresciane. Uno si assenta un attimo e Brescia è diventata Portland.

 

Certo son spariti o trasferiti alcuni simboli della buona borghesia, come Caprettini-Old England, negozio del corso Zanardelli che ha rifornito di loden dieci generazioni di arnaldini (l’Arnaldo è il liceo buono della città, la Eton locale: per riconoscersi, basta chiedere: che sezione? Del Bono ha fatto la F). L’Arnaldo livella e mescola le classi sociali risputando borghesie nuove di zecca: il sindaco è orgoglioso della sua origine proletaria: papà fornaio al quartiere Badia, quartiere operaio, ci si arriva da via Milano.

 

Andiamo. Via Milano, l’antica strada che portava al capoluogo lombardo, è uno stradone metaforico e istruttivo: “Stiamo ridefinendo il nostro rapporto con Milano”, dice il sindaco. Dialogante, in cambiamento: in sostanza Milano “non sa più dove mettere le persone, mi ha detto Sala qualche giorno fa”. Lo strapotere meneghino, celebrato con l’Expo, ha bisogno di un contropotere nel contado padano, perché in Lombardia c’è squilibrio tra un centro e tutto il resto. L’albero della vita, l’arbusto magari non stupendo ma celebratissimo che allignava tra le attrazioni di quella già storica kermesse, del resto era fatto qui: nacque l’hashtag #orgogliobrescia. Milano ha anche ha una first lady bresciana, Francesca Bazoli, figlia di Nanni, il Papa laico a Brescia. Altri orgogli. In sostanza, pare di capire, se Milano scoppia, Brescia con le sue eccellenze – sanità, industria, trasporti – è pronta a giocare un ruolo importante di numero 2, col Frecciarossa del resto (amministratore delegato delle Ferrovie è Renato Mazzoncini, bresciano) sono quaranta minuti.

 

Caserme e baretti, la percezione della sicurezza. “Gli immigrati sono entrati nella classe dirigente: abbiamo laureati, abbiamo medici”

In via Milano ci sbuchiamo dalla Iveco, si parla con gli operai che finiscono il turno alle quattro e mezzo. Lamin, senegalese, è arrivato negli anni Novanta, “certo che ho votato Del Bono”, dice, e poi scappa perché ha la partita di calcio. Islam, dal Bangladesh, da diciott’anni monta cabine di camion. E’ presidente di una Bangladesh Welfare Association. Mohamed pure è del Bangladesh. Sei anche tu nella sua associazione? Veramente no, dice. “Siamo paesani, ma poi ognuno ha l’associazione preferita”. Del resto prima delle elezioni s’era formata anche una “lista immigrati” che s’è sciolta quasi subito: “Non si capisce perché un egiziano dovrebbe votare per un senegalese”, dice un altro. Anche questo è seconda generazione.

 

Tutti però, prime e seconde e locali, voglion prendere parte al nuovo benessere. Che inizia proprio da via Milano, dove sorgerà un nuovo quartiere, spazi culturali, ci son degli splendidi capannoni già pronti; forse in coppa a micidiali veleni (Brescia è assai inquinata, ma che problema c’è? Se non è ecologica lo diverrà presto, se c’è modo di farci il business). Però intanto a via Milano va in scena, qui sì, una strepitosa kasbah postmoderna: sull’angolo con piazzale Garibaldi sopravvive e prospera Fibra1, storico emporio ove generazioni di bresciani hanno comprato lenzuola e accappatoi; accanto, la macelleria halal, la banca marocchina Chaabu Bank che offre una carta Bladi con sconto del 50 per cento su una selezione di alberghi in Marocco. Poi il ristorante Modì (“cucina bresciana” con menu indiano completo a 12 euro). E accanto il ristorante pachistano “Spice Village”. “Non puoi capire cos’è stata l’inaugurazione”, mi dice Emanuele Galesi, redattore del Giornale di Brescia e intellettuale locale. “Davanti, pieno di Suv, e poi hostess italiane in minigonna, barman acrobatici, video di Shakira e Michael Jackson e star pachistane. Il ristorante fa capo a Ali Bajwa, amico di Imran Khan, uno dei politici più importanti del Pakistan. Questa inaugurazione s’è tenuta nel giorno di San Faustino, il patrono di Brescia”. Tutti insieme, pachistani ed egiziani e bresciani, vogliono far parte del nuovo benessere, dei nuovi anni Ottanta sulla strada per Milano. Ma a Brescia.

 

“Gli anni brutti sono stati i Novanta”, dice il sindaco rieletto. L’ondata migratoria tosta, mentre finiva la Dc. Poi la crisi del tondino

Certo nel frullatore padano-pachistano qualche cortocircuito ogni tanto si crea: cortocircuito soprattutto muliebre, nella comunità tentata dal relativismo bresciano (città di femmine indipendenti e libere, qui fu ambientato nel ’64 “Il magnifico cornuto” con Claudia Cardinale; qui di tanto in tanto qualche rampolla troppo occidentalizzata viene sterminata dalle amorevoli famiglie naturali; nel 2006 Hina Saalem e quest’anno Sana Cheema).

 

Ma intanto su via Milano sfreccia il progresso e sfreccia il 3, l’autobus che porta gli operai verso il villaggio Badia, di dove è originario il sindaco. “Qualche anno fa la Lega propose l’introduzione sul 3 di un guanto di lattice che veniva distribuito per non prendersi i germi”, dice Galesi, e la ragione era sanitaria e naturalmente razzista, poiché rotta di operai, e operai non wasp. Adesso il 3 passa senza guanto, va naturalmente a metano, ecologico e silente; anche se molti preferiscono prendere il metrò, la metropolitana senza conducente che ha messo insieme Napoli e Copenaghen: vagoni senza conducente come nella capitale danese, e opere d’arte sberluccicanti in stazione. “Abbiamo investito 128 milioni di euro in opere pubbliche in cinque anni”, dice ancora il sindaco nel suo studio con aria condizionata polare. Fuori, “la pianura padana diventerà come un grande Pakistan, climaticamente” riflette Galesi. “Le previsioni dicono che diventerà una delle aree più calde d’Europa. Anche le piogge si sono concentrate. Poche e tempestose, causano allagamenti. Tipo monsoni”. Tra Portland e Islamabad, welcome to Brescia. In fondo, sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono, come diceva Paolo VI, il grande Papa bresciano.

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