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Il terremoto da Roma è sempre e solo percepito

Dalla città eterna, il terrore, il dolore, l’angoscia e la disperazione non ti appartengono se non per uno spostamento di significato e di sentimento, sono metafore, in quanto romano te la sei cavata ancora una volta.
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Per i romani il terremoto è una procedura stanca, che si ripete prevedibile negli anni. Arriva una scossa, la casa trema, il lampadario oscilla, specie se abiti ai piani alti e sulle rive del Tevere, tu ti spaventi, ti può succedere di uscire all’aperto facendo le scale con i tuoi cari, incontri gli inquilini delle porte accanto, gentili, abbastanza spaventati ma anche no, sei stranito perché è notte, il primo sonno interrotto dalla paura eccetera. Poi dopo qualche telefonata a parenti, Protezione civile, autorità, pensi di esserti fatto un’idea di quanto può essere successo ma sai che non è così. Il sisma è il diabolico rifugio delle peggiori sorprese.

 

Risali in casa come i coinquilini, compulsi ogni sito possibile sul web, cerchi di fare un uso utile di Twitter, ti rendi conto che un’amica sta ad Arquata del Tronto, dove volevi raggiungerla a prendere il fresco, che il terremoto è appenninico, nell’Italia centrale a cento chilometri da Roma, leggi le dichiarazioni desolate e disperate del sindaco di Amatrice, pensi alla tua amica, che poi è Nicoletta, la chiami e la trovi che ti dice incongruamente che è viva, che è in strada, che è circondata da macerie, che non può fare altro che aspettare con gli altri, fornita di un piumone, e con il suo cane al quale ha messo un cappotto.

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Sono passati sessanta, novanta minuti dalla prima scossa delle 3 e mezzo di notte, ne arriva poi una seconda percepibile, sinistra, ondulatoria (credo si debba dire: per fortuna ondulatoria), intanto segnali su Twitter che Nicoletta porta brutte notizie da Arquata del Tronto, e passi il resto della notte a richiamare amici, a cercare di sapere che succede a Nicoletta, a vedere le prime immagini dello sfascio di Amatrice, di Accumoli e degli altri paesi o frazioni come Pescara del Tronto, a valutare inutilmente tutto. Ma il terrore, il dolore, l’angoscia e la disperazione non ti appartengono se non per uno spostamento di significato e di sentimento, sono metafore, in quanto romano te la sei cavata ancora una volta, la città come dice tua moglie è eterna, forse, non è utile a nessuno che tu sia informato nell’estremo dettaglio notturno di quello che accade, casomai servono soldi, e si vedrà domani, o sangue, ma non quello di un diabetico, chissà, provi a dormire all’alba con scarsi risultati e abbondanti cattivi pensieri. E’ stato il tuo stanco e prevedibile itinerario nel terremoto percepito, a Roma, la città dove per grazia di Dio vige solo la percezione, come quando successe all’Aquila, come altre volte, ma non la cosa, non l’orrore, non l’ordalia della terra che si muove e devasta quello che le è poggiato fragile sulla crosta, la civilizzazione.

 

Il resto sarà tremendo: la conta dei morti, la corsa alla salvezza dei sepolti vivi, il particolare dei vecchi, delle vecchie, dei bambini e delle bambine, l’idea della sciagura che si abbatte sugli indifesi naturali, sui malati e ricoverati di un ospedale. Sarà edificante: gli esempi di solidarietà, di volontariato, di intervento rapido, in sicurezza umanitaria e in piena consapevolezza, da parte di chi ha la forza di reagire e reagisce a mani nude, di chi fa il suo dovere di servizio, con i guanti, con una pratica ormai professionalizzata della solidarietà civile e della protezione degli altri. Sarà ottuso e prevedibile, come non sono prevedibili i terremoti, mai: la colpa della politica, il processo alla scienza, la mancata prevenzione, i soccorsi in ritardo, oppure l’esibizionismo, la cattiva retorica e banale, la lunga scia sismica delle stupidaggini offensive dell’intelligenza e del cuore dei cittadini che non manca mai come coda mortifera all’esplosione apocalittica delle case, del cemento, dei mattoni, della pietra, delle travi, dei tetti.

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