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Storie di frontiera. Da Edy Ongaro, l'italiano morto in Ucraina, a Silvano Girotto, "Frate Mitra"

Maurizio Stefanini

Due vicende umane con punti in comune. Tra idealismo, avventurismo e ideologie. "Bozambo" è morto combattendo come anti-imperialista: ma dalla parte di una aggressione che più imperialista non si può. E tra gli italiani nel Donbas ci sono anche i neofascisti

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Edy Ongaro è morto il 30 marzo 2022, ma la notizia è stata diffusa il 31. E il 31 marzo 2022 è morto anche Silvano Girotto.

 

Ongaro, nome di battaglia "Bozambo", nato a Giussago di Portogruaro in provincia di Venezia, aveva 46 anni. Combatteva nel Donbas dal 2015 nel battaglione “internazionalista” Prizrak, schierato con i separatisti pro-russi, ed è morto appunto in combattimento. “Si trovava in trincea con altri soldati quando è caduta una bomba a mano lanciata dal nemico. Edy si è gettato sull’ordigno facendo una barriera con il suo corpo. Si è immolato eroicamente per salvare la vita ai suoi compagni”, ha ricordato sui Facebook il Collettivo Stella Rossa – Nordest, che ha diffuso la notizia.

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Girotto, noto come Frate Mitra, era invece nato a Caselle Torinese il 3 aprile 1939, ed è morto nel suo letto. Missionario francescano in Bolivia, era stato così soprannominato dopo che durante il golpe del 21 agosto 1971 a La Paz aveva strappato di mano un’arma a un soldato, si era messo a sparare contro i golpisti e aveva anche guidato un assalto a un deposito militare, distribuendone armi a chi cercava di resistere. Ci volle l’intervento di un reggimento blindato dalla parte del golpe per venire a capo della resistenza, al costo di varie centinaia di morti e feriti. E ferito fu lo stesso Girotto, che passò allora alla clandestinità nella guerriglia.

  

 

Due storie certamente con aspetti molto diversi, dal contesto geografico all’epoca. Eppure, anche con molte cose in comune, al di là della concordanza di date. “Con molto orgoglio e molto onore posso dire di essere parte della Prizrak, questo battaglione internazionalista, mi sento dal primo momento tra compagni e compagne. In ogni stato, in ogni parte del globo c'è qualche minoranza, qualche etnia che viene calpestata e allora bisogna reagire”, aveva spiegato Ongaro in un'intervista. “Mi sento internazionalista, non patriota. La sana ribellione che ci hanno insegnato i nostri nonni nella Resistenza è giusto che venga usata”. E, alla domanda se venisse pagato: “Ho una colazione, un pranzo, una cena e un kalashnikov. Si chiama Anita, come Anita Garibaldi. Non ci sono scuse per i massacri della popolazione civile. Vinceremo questa guerra? No pasaran, nosotros pasaremos”.

  

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Però, ammette il Collettivo Stella Rossa – Nordest, “era un compagno puro e coraggioso ma fragile ed in Italia aveva commesso degli errori. In Donbas ha trovato il suo riscatto, dedicando tutta la sua vita alla difesa dei deboli e alla lotta contro gli oppressori”. Più in concreto, in un bar di Portogruaro era finito in una rissa, dove aveva prima dato un calcio all’addome a un esercente, e poi aveva pure aggredito un carabiniere. Concessi i termini a difesa, era stato rimesso in libertà dal giudice in attesa del processo, ma a quel punto si era reso uccel di bosco. Ricomparendo come combattente “internazionalista” nel Donbas.

  

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Ecco, anche nella vicenda umana di Frate Mitra si trova un tale intreccio di delinquenza, idealismo e spirito di avventura in cui diventa difficile capire dove finisca una cosa e inizi l’altra. Figlio di un maresciallo dei carabinieri, a 17 anni per “curiosità e sete di avventura” aveva provato a passare il confine francese clandestinamente. Era stato scoperto. Per evitare l’arresto aveva accettato di arruolarsi nella Legione Straniera. mentendo sull’età. Era andato a combattere in Algeria. Aveva disertato dopo tre mesi: a suo dire, scioccato dalle torture usate contro gli indipendentisti. Tornò in Italia. Fu coinvolto in un furto. Finì in galera. Lì ebbe la vocazione. Il 10 ottobre 1963 prese il saio col nome di Frate Leone. Il 29 giugno 1969 fu ordinato sacerdote. Si fece fama di “prete rosso”. Gli tolsero l’autorizzazione a predicare. Si riscattò facendo il mediatore in una rivolta carceraria. Ottenne di andare come missionario. Finì appunto guerrigliero, da cui l’espulsione dall’Ordine.

    

 

Nome di battaglia: David. In Bolivia; poi in Cile dove fu di nuovo ferito tentando di opporsi al golpe di Pinochet; poi, dopo essersi rifugiato nell’ambasciata italiana a Santiago ed essere stato rimpatriato, anche nelle Brigate Rosse. Salvo poi collaborare coi Carabinieri, e aiutarli a arrestare Renato Curcio e Alberto Franceschini. Fece poi l’operaio e il sindacalista, dopo essersi sposato con una compagnia di lotta guerrigliera in Bolivia, da cui ebbe due figlie.

  

Storie di frontiera: non solo tra idealismo e avventurismo, ma spesso anche tra ideologie. Bozambo è morto combattendo come antifascista e anti-imperialista: ma di fatto dalla parte di una aggressione che più imperialista non si potrebbe. E tra gli italiani che sono andati a nel Donbass accanto a altri di estrema sinistra ce ne sono di idee opposte. Nel 2018, in particolare, su richiesta della Procura di Firenze i Carabinieri arrestarono sei neofascisti italiani accusati di combattere con i pro-russi del Donbass. E “Ucraina La guerra che non c’è”, libro pubblicato nel 2015 dai due corrispondenti di guerra italiani Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi dopo aver passato 40 giorni tra la Kiev post-Maidan e il Donbass, iniziava dall’incontro con un 52enne neofascista italiano che combatteva con gli ucraini del Battaglione Azov; si concludeva con l’incontro un altro neofascista italiano, militante di Forza Nuova e col corpo pieno di tatuaggi inneggianti a Mussolini, che invece combatteva con i pro-russi.

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