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È giovane, quindi è una vittima: le perversioni mediatiche del caso Genovese

Simonetta Sciandivasci

"Ai leoni da tastiera dico: pensate che una di queste due ragazze potrebbe essere vostra figlia”, ha detto Ivano Chiesa, legale rappresentante di due ragazze che hanno denunciato l'imprenditore per cessione di droga e violenza sessuale. I vizi culturali di chi giudica, dentro e fuori dalla tv

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"Ai leoni da tastiera dico: pensate che una di queste due ragazze potrebbe essere vostra figlia”. Lo ha detto Ivano Chiesa, legale rappresentante di due ragazze che hanno denunciato Alberto Genovese per cessione di droga e violenza sessuale. Lo ha detto alla fine del blocco che domenica sera la trasmissione “Non è l’arena” ha dedicato al caso, concentrandosi sulle testimonianze di due ragazze che erano in studio e che venivano riprese di spalle – “dovete fidarvi dei nostri occhi, di noi che le vediamo qui, le guardiamo in faccia”, ha detto Nunzia De Girolamo, in studio anche lei.

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"Ai leoni da tastiera dico: pensate che una di queste due ragazze potrebbe essere vostra figlia”. Lo ha detto Ivano Chiesa, legale rappresentante di due ragazze che hanno denunciato Alberto Genovese per cessione di droga e violenza sessuale. Lo ha detto alla fine del blocco che domenica sera la trasmissione “Non è l’arena” ha dedicato al caso, concentrandosi sulle testimonianze di due ragazze che erano in studio e che venivano riprese di spalle – “dovete fidarvi dei nostri occhi, di noi che le vediamo qui, le guardiamo in faccia”, ha detto Nunzia De Girolamo, in studio anche lei.

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Genovese, imprenditore, si trova da novembre in carcerazione preventiva, e sabato scorso ha detto a Repubblica di stare bene, ha ribadito che quando si droga perde “la percezione del confine tra legalità e illegalità” e che è piuttosto certo di uscire presto: “Ci si prende una grossa responsabilità quando si decide di applicare la carcerazione preventiva”. Quando la prima ragazza, diciottenne, lo aveva accusato di averla drogata, sequestrata, seviziata e violentata per ore, portando al suo arresto, a novembre scorso, erano venute fuori altre testimonianze, tra cui quelle di queste due ragazze, che ieri da Giletti hanno raccontato di festini dove la droga veniva servita agli ospiti o lasciata in giro su grandi piatti a disposizione di tutti. I video che gli inquirenti stanno visionando sembra confermino che la dinamica seguita da Genovese fosse quella raccontata da tutte le ragazze che lo hanno denunciato (attualmente, sei): le vittime venivano stordite con stupefacenti e poi violentate

   

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Sin da subito, una parte dell’opinione pubblica ha tenuto a schierarsi nel solito modo: non si può dire che le ragazze siano del tutto innocenti visto che sono finite a quei festini. Sul punto lo scontro è persistente e preesistente: una donna che entra nella camera del suo aguzzino e viene violentata è quantomeno “un’ingenua”. Dalla parte opposta, questo risulta un modo di colpevolizzare le vittime, ridurre un crimine odioso, fornire un’attenuante e, soprattutto, scoraggiare le ragazze dal denunciare le violenze e gli abusi.

   

Giletti ha aperto la puntata sottolineando di avere voluto tornare sul caso sia perché era rimasto molto colpito dalle due ragazze, sia perché ritiene importante battersi affinché “non vengano colpevolizzate”. E’ giusto, è sacrosanto, e mettiamo tra parentesi il cul de sac: l’opinione pubblica si occupa dei casi di cronaca come fosse giudice cassazionista perché le trasmissioni televisive se ne occupano come fossero tribunali. Mettiamo da parte De Girolamo, che dice che tutto questo la offende come donna e come madre di bambine. Mettiamo da parte la psicoterapeuta in studio, che dice agli italiani che basta essere umani per sospendere ogni giudizio su queste due ragazze. Concentriamoci sul dettaglio dell’avvocato, che dice di avere accettato l’invito in tv affinché gli italiani capiscano che le vittime di Genovese sono delle “bambine” e che quindi sceglie di occuparsi dell’aspetto mediatico della vicenda, alla cui inevitabilità purtroppo contribuisce. Concentriamoci sul fatto che le chiama “bambine” e che è in nome della loro età che chiede al pubblico empatia e dimissione di giudizio: e se fossero state più adulte, allora, chi le definisce complici, compiacenti, persino puttane, avrebbe qualche ragione? Dei molti, terribili vizi culturali che, in questo paese, offuscano chi giudica, difende o semplicemente fa l’editoriale al bar sotto casa, c’è l’impunità in virtù della giovinezza: non difendo una ragazza perché è una vittima punto e basta, ma dico che è una vittima punto e basta perché è una ragazza. Ma così non va. C’è un reato in quello che le ragazze hanno subìto ed è spaventoso che per farcelo vedere un avvocato faccia appello al nostro senso di genitorialità.

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