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CENTRALIZZARE NON SERVE

In tempi di pandemia regole uguali per tutti non significano più equità

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

L’approccio scientifico a un fenomeno complesso cerca di scomporlo in dinamiche locali, per comprenderlo e affrontarlo. Al contrario di quanto fa il governo

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"Se a Cuneo o a Caltanissetta sono risolti i problemi dei trasporti e se le aule sono organizzate per un adeguato monitoraggio”, perché lì le scuole non dovrebbero riaprire? In una sua recente intervista al Corriere della Sera, Agostino Miozzo, il coordinatore del Comitato tecnico scientifico del governo, ha suggerito misure differenziate nella riapertura delle scuole. Anche se sembra che ce ne siamo dimenticati (pensiamo alle restrizioni natalizie o prima ancora all’obbligo di non uscire dal proprio municipio), l’Italia è un paese fatto di piccoli comuni. In molti di questi, i ragazzi vanno a scuola a piedi, col loro zainetto sulle spalle, o prendendo mezzi pubblici che svolgono quel servizio ad hoc e che è più facile riorganizzare in modo appropriato. Che senso ha considerare quelle scuole come quelle di Milano o Roma? Perché ostinarsi a ignorare, solo perché non li vediamo in atto, che gli effetti sulla scolarizzazione risulteranno nel medio e lungo periodo i più devastanti, soprattutto per i ragazzi economicamente più svantaggiati? Quelle di Miozzo sono parole di grande buon senso. Smascherano però un fraintendimento che segna tutto l’operato del governo: sia le azioni già messe in atto, sia quelle, più o meno apertamente, annunciate per il futuro. La pandemia è un fenomeno globale e proprio per questo va affrontata centralizzando quanto più possibile le decisioni.

 

Su questa linea si trovano anche gli esperti, i quali dovrebbe sapere che dietro la parola “globale” si celano spesso ignoranza scientifica e retorica politica: l’approccio scientifico e razionale a un fenomeno complesso cerca di scomporlo in dinamiche locali, per meglio capirlo e governarlo. La linea del governo, sinora, è stata di imporre misure quanto più possibili uniformi ai territori, stante un rapporto con le regioni segnato da continue conflittualità, mentre l’ipotesi di fare appello alla responsabilità di individui e famiglie non è neppure contemplata; anche se tutti sanno che non c’è lockdown e non ci sono 70 mila poliziotti che tengano, se non c’è la disponibilità delle persone a rispettare le restrizioni. Negli ultimi anni, non a caso, si è fatto un gran parlare di “medicina di precisione”. L’azione del governo italiano tutto si può dire tranne che sia improntata alla precisione, che sia cioè ritagliata sull’ecologia locale dell’infezione, che non è la stessa a Castell’Arquato come a Bisceglie. E’ un po’ la stessa logica del divieto agli spostamenti, come se un viaggio in automobile fosse rischioso quanto uno in treno o in autobus. Di fronte al Covid-19, in Italia presumiamo che il livello più alto di governo sia quello giusto sia per combattere la diffusione del contagio, sia per assicurare i migliori esiti sanitari, sia per evitare che la pandemia sfibri del tutto la trama del tessuto sociale.

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La risposta del governo a ogni problema è: centralizziamo. Invece stiamo imparando, in queste settimane, che avere a disposizione dati non disaggregati, per quanto comunicati quotidianamente, vuol dire poco. La stessa letalità ci dice nulla, se non che sappiamo dove i pazienti Covid stanno morendo, in quali condizioni versano, che abbiamo il quarto tasso di letalità al mondo e siamo primi per numero di morti ogni 100 mila abitanti (dati Johns Hopkins). Le restrizioni hanno un costo-opportunità altissimo e verosimilmente meno persone colpiscono contemporaneamente e meglio è, per la società tutta. La centralizzazione e l’uniformità, in questo caso, non sono tutela del fatto che abbiamo a che fare con uno stato di diritto, del fatto cioè che le norme cui siamo sottoposti sono astratte, generali e uniformemente applicabili. Queste norme non lo sono, sia perché tentano di dettare ai cittadini comportamenti di dettaglio rispetto ai quali la legge è tipicamente silenziosa (quante persone invitare al pranzo di Natale), sia perché sono sperabilmente “a tempo” e legate alla situazione pandemica. L’idea che la socialità si possa aprire e chiudere come un rubinetto, senza attenzione alle specificità locali, fa male al progresso della conoscenza e mina la fiducia razionale nelle regole. Che sono poi le sole armi contro la pandemia.

 

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