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Meet the Harris

Doug, ti presento Kamala

La vicepresidente eletta e suo marito, l’amore tardivo che sa trovare l’equilibrio tra ex mogli, sorelle, nipoti e l’insegnamento materno: nel dubbio, sorridi

Paola Peduzzi

“Siamo il classico esempio di una famiglia moderna”, scrive la Harris nel suo memoir: i figli acquisiti la chiamano “Momala”, la prima moglie è un’amica, la tribù Harris si è unita a quella degli Emhoff. Doug ha anche trovato il suo posto nella galassia tutta al femminile della Harris, quella sisterhood che Kamala ha sperimentato con la mamma e la sorella Maya e che poi è diventata per buona parte della sua vita il baricentro di tutto

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Sono troppo vecchio per fare giochetti o nascondere la palla. Mi piaci davvero molto, vorrei scoprire se riusciamo a far funzionare questa cosa”. Doug Emhoff, il primo “second gentleman” della storia americana, mandò questa email a Kamala Harris il giorno dopo il loro primo incontro – un appuntamento al buio voluto da lui – assieme a un calendario dei due mesi successivi con possibili date in cui rivedersi. Era il 2013 ed “è da allora che funziona”, scrive la Harris nel suo memoir “The Truths We Hold: An American Journey”.

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Sono troppo vecchio per fare giochetti o nascondere la palla. Mi piaci davvero molto, vorrei scoprire se riusciamo a far funzionare questa cosa”. Doug Emhoff, il primo “second gentleman” della storia americana, mandò questa email a Kamala Harris il giorno dopo il loro primo incontro – un appuntamento al buio voluto da lui – assieme a un calendario dei due mesi successivi con possibili date in cui rivedersi. Era il 2013 ed “è da allora che funziona”, scrive la Harris nel suo memoir “The Truths We Hold: An American Journey”.

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L’incontro con Doug è il momento della svolta nella vita della neoeletta vicepresidente d’America: prima di allora c’è la carriera di Kamala, c’è la sua solida, decisiva, sorridentissima sisterhood – la sorella, la nipote, la mamma, ispirazione assoluta – ma manca una relazione stabile. Arriva con Doug, inaspettata, e diventa in pochissimo tempo il pivot della Harris. Lisa Bonos del Washington Post (si occupa di “dating and relationship”, mansione meravigliosa) scrive che tra i tanti sogni che l’elezione di Kamala riaccende c’è anche la speranza di innamorarsi quando non ci si crede più, in quell’età (la seconda metà dei quaranta) in cui sembra che l’amore o è già successo o non succederà. Andate, cercate, il vostro Doug è là fuori che vi aspetta, scrive la Bonos, interpretando a suo modo questo attimo in cui tutto sembra possibile, perché Kamala continua a ripetere che tutto è possibile e lei è lì per dimostrarlo: è la prima che apre la porta, “e non sarò l’ultima”.  


Quanti Doug ci siano là fuori non sta a noi dirlo, di certo c’è questo Doug, 56 anni, due figli dal primo matrimonio, rapporti buoni con l’ex moglie (buonissimi, assicura  Kamala), avvocato nato a New York ma cresciuto in California, pronto a prendersi una pausa da tutto per star dietro alla nuova moglie (si sono sposati un anno dopo quell’email), regista – dicono – di quel sorriso enorme che c’è sempre sul volto di Kamala, il sorriso della sicurezza e della serenità. Vi siete mai chiesti perché la neovicepresidente ride così tanto? Molti l’hanno anche criticata: Peggy Noonan, speechwriter di Reagan e commentatrice del Wall Street Journal, ha scritto che quell’assenza di gravitas, in tempi così disgraziati, suonava quasi irridente, sicuramente inopportuna. Nelle ultime ore quel sorriso è sembrato stupendo e rassicurante, l’antidoto ai musi lunghi dei trumpiani e anche alle polemiche dei lagnosi. Nel dubbio sorridi, diceva la mamma di Kamala alle sue figlie, quando le tirava su da sola – il padre Donald l’aveva lasciata  quando le bambine erano ai primi anni di scuola – e ripeteva loro: fate sempre del vostro meglio, e per fare il meglio sappiate che dovete studiare e lavorare, sudare tantissimo, sempre, senza mai fermarvi, senza mai pensare di essere arrivate. Senza lamentarvi anche, e nel dubbio sorridete.


L’arrivo di Doug ha cementato quel sorriso, lo ha allargato dice chi li conosce. “Siamo il classico esempio di una famiglia moderna”, scrive la Harris nel suo memoir: i figli acquisiti la chiamano “Momala”, la prima moglie è un’amica, la tribù Harris si è unita a quella degli Emhoff.  Doug si è messo nel ruolo del primo sostenitore e del primo consigliere senza fare né capricci né questioni, senza ingaggiare polemiche né infilarsi in quei vicoli scuri che sono le discussioni sui matrimoni in cui a essere famosa è lei e non lui, facendo anzi il tifo e caricando il tifo attorno a sé.  Doug ha anche trovato  il suo posto nella galassia tutta al femminile della Harris, quella sisterhood che Kamala ha sperimentato con la mamma e la sorella Maya e che poi è diventata per buona parte della sua vita il baricentro di tutto. Ha fatto il giro dei social il video della vicepresidente con in braccio la nipotina, nei giorni in cui ancora non si sapeva se questo ticket democratico avrebbe avuto la meglio sulla Casa Bianca trumpiana. Amara ha quattro anni (è figlia della figlia della sorella di Kamala), non ha visto la prozia per quasi un anno, è seduta in braccio e gioca con la sua giacca, le fa molte domande su quel che sta accadendo, a un certo punto dice: “Io non potrei essere presidente”, e Kamala le risponde: “Potrai essere presidente, non puoi adesso, devi aspettare di compiere almeno 35 anni”. Il video è girato assieme alla famosa foto di Barack Obama che, nello studio ovale, fa toccare i suoi capelli a un bambino afroamericano, per fargli sentire che hanno gli stessi ricci e che è davvero così, c’è un uomo di colore che fa il presidente degli Stati Uniti. Kamala è l’Obama di oggi – lei che non è mai stata obamiana – con il suo carico di coolness e di prime volte, soprattutto con quel sorriso – proprio come Obama – che fa sognare di tutto, di poter far crollare soffitti di cristallo e di ricucire qualsiasi ferita: la stessa bacchetta magica che sembrava avesse in mano Obama, nel 2008.

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Oggi sappiamo che non c’era formula magica da pronunciare, che le alte aspettative danno spesso grandi delusioni, ma mentre ci fidiamo di questo nuovo, sfacciato sorriso, mentre cerchiamo di non pensare che di Kamala ce ne sia una sola, possiamo dire che tanti Doug là fuori magari ci saranno, ma per ora è stato soltanto lui a trovare un equilibrio tra l’amore tardivo, la sisterhood, la propria famiglia e le ambizioni di Kamala. Lo ha fatto ripetendo, anche lui sfacciatissimo, la sua dichiarazione d’amore e di intenti: “Non sono apertamente appassionato di politica. Sono apertamente suo marito”.

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