PUBBLICITÁ

La corsa alla Casa Bianca vista in una serie tv rivela i trucchi anti Trump e quelli di un’ex first lady

Paola Peduzzi
PUBBLICITÁ

Più di tutti i talk show, più di ogni Playbook che Mike Allen manda ogni mattina dal desk (che sta per lasciare) di Politico, più di “The Circus” che racconta il dietro le quinte delle primarie americane, più di tutti gli articoli letti sulla guerra dei sessi, dei tweet, dei soldi, delle gaffe nella corsa per la Casa Bianca, più di tutti gli approfondimenti sulla fine dell’establishment e l’istituzione del reality show definitivo – più di tutto c’è “Scandal”. L’ultima stagione (che si è conclusa la settimana scorsa) di questa serie tv famosa soprattutto perché manca di ogni credibilità è l’analisi perfetta della stagione elettorale americana del nostro folle 2016.
Intanto, se solo la realtà assomigliasse un pochino a quella di “Scandal”, Donald Trump sarebbe già stato battuto. Il #NeverTrump di “Scandal” è un patto di non belligeranza degli avversari che si trasforma in un’operazione tutta femminile di falsi corteggiamenti politici: il Trump della fiction, con i capelli dello stesso colore di quello reale ma un accento incomprensibile del Texas, non resiste all’idea di poter domare una donna, ancor più se può mettere una donna contro un’altra donna e diventare il regista della lotta nel fango – così finisce per tradirsi. Sembra tanto facile che non si capisce perché nessuno abbia ancora provato uno stratagemma tanto banale, invece che continuare a far parlare chiunque abbia incontrato Trump nella propria vita, tra avances, molestie, un portavoce inesistente e un ex maggiordomo che sogna di uccidere Obama.

 


PUBBLICITÁ

Il trailer di "Scandal"


 

In “Scandal” c’è anche una ex first lady che si candida alla presidenza. A differenza di Hillary Clinton però ha già divorziato dal marito presidente (dopo aver manovrato tra assassinii e voti rubati per farlo eleggere, dopo un figlio ammazzato, un tradimento che è la storia principale della serie, e dopo un’infinità di malefatte che non è mai chiaro come facciano a non essere tutti in prigione), si è candidata anche se lui non voleva, non ha ottenuto il suo endorsement ma comunque fa parte del suo stesso partito: a un certo punto la continuità deve essere, almeno in pubblico, salvaguardata. Al momento della verità, lui decide di fare un discorso in cui parla soltanto dei suoi otto anni alla Casa Bianca, senza mai citare la possibilità – senza mai augurarsela – che la ex moglie diventi presidente dopo di lui. Lei gli dice che “è abominevole”, lui le risponde che lo fa per lei, che hanno avuto un matrimonio troppo incasinato, un post matrimonio persino peggiore, che la sua amante storica le fa da campaign manager: la cosa migliore che lui possa fare è non parlare di un “noi”, affinché nessuno faccia domande su quel “noi”.

 

Poi non sono un sindaco impopolare di una cittadina spersa nell’America profonda – precisa lui – sono presidente da otto anni e molti mi amano ancora tanto, “ho un consenso del 54 per cento”: ecco perché parlo di me. Lei gli risponde che è un arrogante presuntuoso convinto che, se fossero rivali, lui la batterebbe alla grande, e gli dice che quel suo atteggiamento da vittima, quel suo vivere la Casa Bianca come una prigione (molto versione Obama, va detto) è ridicolo e inefficace. Lei gli ricorda che lui non ha mai fatto niente per diventare presidente, che è stata lei a renderlo tale, che lui è nato fortunato, mentre lei non è “un uomo bianco” e s’è guadagnata “tutto da sola” e se la merita molto più di lui, la Casa Bianca. E infine gli pone una domanda che Hillary deve aver posto a Bill almeno un centinaio di volte, una domanda che le mogli fanno spesso, e chissà come risponde lui, chissà se anche quando si sono accordati sul ruolo di Bill in un’eventuale Amministrazione Hillary, lo zar dell’economia, lei gliel’ha richiesto: esiste uno scenario al mondo in cui tu non sia disposto a parlare soltanto di te stesso?

PUBBLICITÁ