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contro mastro ciliegia

Musk e il lavoro di gruppo

Maurizio Crippa

L'imprenditore più futurista del mondo ha dato un ultimatum taylorista ai suoi dipendenti: "Basta lavoro remoto". Sembra un paradosso, ma apre a una domanda: esistono aspetti tali per cui per lavorare bene si deve farlo insieme? 

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Senz’altro sbaglio io, ma la Tesla continua a farmi un effetto da Giulietta GT e pantaloni zampa da elefante, quando sembrava l’ultima frontiera del tamarrismo e invece era solo Pasolini a Sabaudia. E anche la smania di comprare Twitter, e di portarci Trump con l’incoscienza con cui i ragazzini rimettono il compagno stronzo nelle chat, davvero non so. Però bisogna ammettere che Elon Musk, nel suo egotico talento bizzarro, possiede tratti in grado di trasformare il più futurista degli imprenditori in un industriale novecentesco, anzi in un conservatore d’altri tempi. Che detesti il wokism e si preoccupi della denatalità italiana, è noto ma non è il punto. Invece ieri ha spedito ai suoi dipendenti di Tesla una sorta di proclama, o di ultimatum: “Il lavoro da remoto non è più accettato”. E dunque: “Tutti quelli che intendono lavorare da remoto devono essere in ufficio per un minimo (e sottolineo *un minimo*) di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla”. “Se ci sono collaboratori straordinari per cui questo non sarà possibile, giudicherò e approverò direttamente io”. Chissà. La cosa più interessante è però una notazione filosofica: “Ci sono certamente altre aziende che non richiedono la stessa presenza. Ma quando è stata l’ultima volta che hanno creato un grande nuovo prodotto?”. Novecentesco o persino taylorista, e di certo controcorrente in un mondo del lavoro in cui l’ultima moda è la “great resignation”, Musk ha posto una domanda non aggirabile: esiste un aspetto personale, collaborativo o perfino fisico, nel lavoro umano, per cui per farlo bene si deve farlo insieme? 

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