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contro mastro ciliegia

Cesare Maestri, Sixties di pietra

Maurizio Crippa

È morto l'alpinista considerato da molti il più grande di tutti sulla roccia. Ma è soprattutto l'alpinista che portò uno stile e uno spirito nuovo nell'arrampicata: il piacere estetico della sfida, della via più difficile. Chi ama il climbing, anche se non lo sa, deve molto a lui

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Se n’è andato ieri anche un altro “camminatore”, ma così diverso da Emanuele Macaluso. Uno che camminava ma in verticale, all’altro capo dell’Italia, sulle Dolomiti. Si chiamava Cesare Maestri e il suo nome oggi è un po’ di nicchia, ma chi oggi fa climbing o altre discipline estreme della montagna deve molto proprio a lui, che già negli anni Cinquanta aveva creato una nuova arte di andare in parete, e che secondo molti fu il più grande alpinista su roccia della storia.

 

Aveva anche  inventato una cosa che chiamavano arrampicata in discesa, saliva dalla parte più facile e poi si calava giù dalla più difficile. Un gesto estetico, una prova di bravura, un gioco o appunto uno “sport”.

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Era una star, era famoso. Non fosse stato il montanaro silenzioso che era, si potrebbe dire che portò i Sixties sulle cime. C’è anche un buco oscuro nella sua vita, la storia della cima del Cerro Torre, in Patagonia, che lui disse di aver raggiunto nel 1959, col suo compagno Toni Egger che però precipitò nella discesa, portandosi via la macchina fotografica. Per decenni in tanti, e Messner con l’acribia dello storico, hanno voluto dimostrare che non era vero, non aveva scalato il “Grido di Pietra”. Lui disse sempre di essere sincero, e perché poi mentire? Forse non arrivò in cima, come dice il positivista Messner “a quel tempo era impossibile”. O forse Cesare Maestri fece l’impossibile. Così che resta un mistero, come quella strana brama degli uomini di camminare sulle cime. E chi ama farlo, lo deve anche a lui.

 

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