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Leandro che camminava sui binari e non faceva un selfie

Maurizio Crippa

Stavano forse soltanto recitando una scemenza antica, camminare sui binari, come in certi vecchi racconti di fughe on the road

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Nel linguaggio burocratico della Polfer, rugginoso come una massicciata ferroviaria, “purtroppo si sono trovati sulla travata metallica e non avevano vie di fuga”. Due il treno l’hanno scansato, Leandro invece no. Cosa avesse nei suoi occhi di tredicenne, all’ultimo istante, non lo saprà mai nessuno. Quel che pare improbabile, quel che la Polfer tende a escludere, è che l’ultima cosa che gli occhi di Leandro hanno visto, sul binario vicino a Soverato, sia stata la luce amica e ingannevole del suo telefonino. Non stavano facendo un “selfie estremo”, una prova di coraggio, un rito di passaggio nell’epoca della sua riproducibilità digitale.

 

Stavano forse soltanto recitando una scemenza antica, camminare sui binari, come in certi vecchi racconti di fughe on the road. Eppure è la prima cosa che tutti hanno hanno pensato e hanno scritto, i giornali. Che quello di Leandro, in Calabria, fosse solo “l’ultimo caso in ordine di tempo” di una moda per cui dal 2014 sono morte più di 150 persone in tutto il mondo, la chiamano daredevil selfie, fa più millennial e consente di dare la colpa ai tempi e alla tecnologia. Quei ragazzi, sono sempre ragazzi, tutti lì sulle rotaie della prateria, per immortalare i propri occhi incorniciati dal treno che arriva alle spalle. O in bilico su una roccia per precipitare, o volando ad acchiappare uno skilift che non arriverà. A cercare, forse solo, qualcosa che somigli alla libertà. Però Leandro no, camminava soltanto sui binari. Uno di quei giochi che fa la vita.

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