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Troppo agrodolce “Il colibrì” che ha aperto la Festa del cinema di Roma

Mariarosa Mancuso

Il film diretto da Francesca Archibugi, tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, funziona troppo come una versione toscaneggiante di "This is Us". Nonostante il cast di grido

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Tanti film per la rinascita del cinema in sala. Lodevole programma. In Italia la situazione è grave, non vale come consolazione il fatto che la Francia – da sempre il paese più cinefilo d’Europa – ha perso quasi uno spettatore su tre. Ne manca sempre uno per arrivare al dimezzamento degli incassi italiani (tutto è calcolato rispetto al 2019). La Festa di Roma contribuisce allo sforzo bellico, con la speranza che “ognuno possa trovare un film di suo gusto da vedere in sala”, spiega la direttrice Paola Malanga. Risultato: un programma tanto vasto che “trovare” non ha più a che fare con il gusto, ma con la pazienza necessaria per scorrere gli elenchi dei titoli.

A dura prova sono chiamati gli spettatori professionisti, abituati a reggere quattro o cinque film in un giorno. Purché non siano programmati in contemporanea, e purtroppo accade spesso. Non è solo un problema capitolino, la pressione sui festival aumenta dappertutto. Ma se non si sceglie tra le proposte, se si aggiungono sezioni a dismisura, se ribattezza il concorso con l’etichetta “Progressive Cinema”, se si accolgono tutti film e le serie in procinto di uscire in sala o sulle piattaforme, il festival diventa una vetrina di merce in offerta. Accatastata.

 

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Apertura ieri sera all’Auditorium (la Festa si chiude il 23 con i premi, tornati in auge e cambiati di nome: via il Marc’Aurelio, entra la Lupa capitolina) con “Il colibrì”. Film di Francesca Archibugi tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del premio Strega 2020 – per lo scrittore, un bis dopo “Caos Calmo” che fu portato sullo schermo da Nanni Moretti. Un monumento di italica creatività.  Nanni Moretti torna nel “Colibrì”. Ha il ruolo dello psicoanalista che avvia la storia rivelando al protagonista Marco Carrera i segreti riguardanti l’analisi della consorte Martina. Sposata per il gioco dell’amore e del caso che regge l’intero romanzo, e di conseguenza il film. Per trovare un parallelo con una serie tv, funziona come un toscaneggiante “This is Us”, e ancor di più come il film che ne ha tratto Dan Fogelman. Titolo italiano “La vita in un attimo”. Titolo originale “Life Itself”. Qualcosa come “E’ la vita”, cosa che ha fatto dire a un critico “perché dicono vita se poi si parla sempre di morte?”

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Marco Carrera detto il Colibrì, perché da piccolo era più minuto dei fratelli. E perché, viene detto in una scena madre, il colibrì sbatte vorticosamente le ali per restare fermo in aria. Somiglia a Marco che ha una sorella suicida, perde l’amore adolescenziale Luisa (hanno case al mare vicine, ma lei sta a Parigi), scende da un aereo destinato a precipitare, sposa avventatamente un’altra sopravvissuta fragile di nervi, insieme hanno una figlia convinta di avere un filo che la lega al muro. Qualche volta gioca d’azzardo, altre volte l’azzardo è scriversi con Luisa – ma hanno fatto voto di castità.

Il film corale chiama un cast ricco – ottima scelta per la passerella, i fotografi, i telegiornali e la stampa tutta. Pagine sulla Lettura del Corriere, interviste a Pierfrancesco Favino che ha la parte di Marco, da invecchiare con il trucco come Berenice Bejo che fa Luisa. Laura Morante è la madre di Marco, architetta alla moda sposata all’ingegnere con l’hobby dei grandi plastici (uno lo devono calare dalla finestra). L’andirivieni tra le varie epoche è vorticoso, lo era anche nel romanzo che però metteva le date, spezzettando in un mosaico storie di tradimenti e malocchio (incredibile, pure preso sul serio). “Novelettish”, scrive Screen International. Da romanzo rosa. Non siamo gli unici a non aver gradito l’agrodolce.

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