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Venezia 2022

"Sono in un territorio di nessuno". Parla Alejandro González Iñárritu

Giuseppe Fantasia

"Trovavo importante poter riflettere sulla mia vita e dare un senso a quello che ho fatto. È per questo che il film Bardo non segue una struttura logica, ma è veramente un’esperienza onirica"

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Venezia. “Il 1° settembre del 2001 - spiega il regista e sceneggiatore Premio Oscar Alejandro González Iñárritu – con la mia famiglia decidemmo di lasciare il Messico per andare a vivere a Los Angeles. Per un anno quell’assenza mi ha rincorso ogni giorno. Il Messico è diventato così uno stato mentale e le storie che racconto nel mio nuovo film, interpretano questa assenza". Il film a cui si riferisce - e con cui concorre al Leone d’Oro in questa 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia appena iniziata – è Bardo, La cronaca falsa di alcune verità. “Questo film non arriva certo a caso, come non è un caso che lo presenti qui a Venezia proprio il 1° settembre. Sono alla vigilia dei 60 anni, sono portato a riflettere e pronto ad accettare cambiamenti e altri scombussolamenti, ma con un’energia diversa. Mi ha aiutato molto un monaco vietnamita con la meditazione, dando così origine a qualcosa di liberatorio”.

  

Prodotto da Netflix - che lo distribuirà nei cinema dal 16 dicembre prossimo e poi sulla sua piattaforma – Bardo è un’esperienza immersiva epica e visivamente straordinaria, ambientata durante l’intimo e commovente viaggio di Silverio (Daniel Giménez Cacho), un noto giornalista e documentarista messicano che vive proprio nella città degli Angeli. Dopo aver ricevuto un prestigioso riconoscimento internazionale, è costretto a tornare nel suo paese natale, ignaro che quel semplice viaggio lo spingerà verso una profonda crisi esistenziale. La follia dei suoi ricordi e delle sue paure – mostrate con grande abilità da Iñárritu, Premio Oscar nel 2014 per Birdman o l'inaspettata virtù dell'ignoranza e, un anno dopo, per The Revenant - riesce così a perforare il presente, riempiendo i suoi giorni di un senso di sconcerto e stupore. Tra emozioni e abbondanti risate, Silverio lotta per trovare risposte a domande universali ma intime, riguardanti la propria identità, il successo, la fragilità della vita, la storia del Messico e i profondi legami sentimentali che condivide con la moglie e i figli.

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In pratica, ci ha voluto raccontare cosa significa essere umani in questi tempi molto particolari?

Esattamente. Il racconto di questo viaggio tra Los Angeles e il Messico e ritorno, come la storia di sé stesso 'spatriato' e della sua famiglia, sono il cuore di questo film che parla anche della storia del mio paese, della tragedia dei migranti che provano a passare il confine, della vita dei messicani in California.

 

Tutto è come un sogno: perché?

Mi piace che il confine con la realtà non sia facilmente distinguibile, perché la realtà non esiste. Quel che conta, è il senso che dai agli eventi che vivi. È tutto finzione, anzi un’auto-finzione. La nostra esperienza di vita equivale a un evento che può essere interpretato in modi diversi a seconda della sensibilità che abbiamo. È per questo che nel film si dice che la memoria non si basa sulla verità, perché non esiste una certezza al di là delle proprie emozioni e del proprio sentire. Il film non è un viaggio geografico, ma un tentativo di costruire la propria identità – la mia in particolare – basandomi sulle mie paure, sulle mie emozioni e su tutto quello che ho vissuto nel periodo di pandemia come negli anni trascorsi da quando ho lasciato il Messico e sono andato a vivere negli Stati Uniti, oramai 21 anni fa.

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Una maniera per chiudere un cerchio?

Sì, perché trovavo importante poter riflettere sulla mia vita e dare un senso a quello che ho fatto. È per questo che il film non segue una struttura logica, ma è veramente un’esperienza onirica, perché è basato sul mio vissuto e non poggia su alcuna verità.

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Il personaggio di Silverio ricorda per molti aspetti quello interpretato da Micheal Keaton in Birdman

È vero. Entrambi condividono sicuramente una lotta contro l’egocentrismo e la sindrome dell’impostore. Ci sono momenti in cui uno è pronto a riflettere, soprattutto quando il percorso verso la fine è più vicino. Tra Keaton è Silverio c’è però una differenza: Silverio non reagisce, risponde, osserva, accetta la sua condizione di abitante del Bardo, accetta di non avere certezze in un mondo in cui oggi è molto più facile dire: io ho torto, tu hai ragione e tagliare con l’accetta il giusto o lo sbagliato.

 

Nel 2019, George Saunders scrisse un libro divenuto poi un bestseller, Lincoln al Bardo (Feltrinelli), dove il Bardo, riferimento al "Libro tibetano dei morti", alludeva al momento di passaggio in cui la coscienza è sospesa tra la morte e la prossima vita. Nel suo caso, che cos’è esattamente?

Uno spazio tra la vita e la morte come può essere la B.A.C.A California da cui provengo io, acquistata di recente da Amazon. Le grandi corporation stanno diventando più ricche di molti paesi e questo sta accadendo ovunque, non solo lì, rischiando di farci tornare a una specie di feudalesimo. Alcune di quelle corporation hanno tre milioni di dipendenti, come la una popolazione di una grande città. Da parte mia, cerco di riderci su, di trattare questa realtà con umorismo, ma occorre rifletterci in modo più ponderato.

  

Ci sono spunti di riflessione nel film anche per parlare e ‘rivisitare’ la guerra nel Messico

Sono ricordi che non voglio che siano amari, ma devono servire a riflettere sulla stupidità dei nostri tempi. ‘Bardo’ equivale al concetto del limbo nella tradizione del cattolicesimo, è un cambiamento di stato che coincide con la mia vita: sono in un Bardo anche io del resto, in un territorio di nessuno, perché in Messico sono considerato americano e in America sono considerato messicano. È evidente che equivale a due dimensioni. Questa dimensione di una terra di nessuno crea uno stato di vulnerabilità per tutti gli apolidi che si trovano in queste condizioni come le mie.

  

Nel film è forte ed evidente anche la critica che fa agli intellettuali: lei si sente un intellettuale di prima classe?

(Ride, ndr). Non sono uno stereotipo, però è vero che anche gli immigrati si suddividono in varie categorie. Ci sono i profughi, gli esiliati politici e molti altri, già affrontati in Amores Perros (un altro o iconico film del 2001, ndr), dove parlai di diverse forme d’immigrazione. Sono negli Stati Uniti da 21 anni ed esprimo tutte le contraddizioni che può esprimere un immigrato che si è perfettamente integrato con il suo nuovo Paese. So che gli altri immigrati vivono condizioni molto diverse dalla mia, già evidenziate in Carne e Arena, un’installazione fatta grazie al supporto e al coinvolgimento della Fondazione Prada. Sette anni fa, sono stato in Sicilia per incontrare i sopravvissuti del barcone che era da poco affondato. Sono persone che non hanno alcuna possibilità nei loro Paesi e sono costretti ad abbandonarli. Io ho invece scelto di andare via, la situazione è diversa, mi sento un privilegiato.

  

Questo perché, nella vita, ha avuto un successo planetario: come lo gestisce?

Il successo ha un sapore agrodolce e ti può persino intossicare. Quando c’è, sopraggiungono una serie di obblighi, gli altri hanno aspettative su di te, devi sempre andare più in profondità, anche quando non ne hai voglia. Non mi lamento, per carità, sono contento di averlo, ma ha il suo prezzo. Significa sacrificare una parte della propria esistenza. Fare film e fare cinema richiede una grande fatica. ‘Sono stato qui, ma non sempre presente’, si dice nel film. Il successo significa sacrificare del tempo che verrebbe dedicato alla propria famiglia. Io c’ero e non c’ero al tempo stesso. Con il successo si perdono delle cose e nascono dei rimpianti in un secondo momento, perché la vita privata passa in secondo piano rispetto alla propria professione. È uno stato di fatto, ci vuole del tempo per avere coscienza.

 

Il film si apre con un sogno e c’è questo tema del ‘volare’ ricorrente. Come mai?

Non so perché, ma ho sempre sognato di volare e sempre in modo orizzontale, molto vicino al terreno. Accade anche a molte altre persone con cui mi sono confrontato: un volo rasoterra e non verso il cielo. Quando sogno il volo, è molto liberatorio. Se non lo sogno per molto tempo, mi preoccupo. Sognare e ricordare: un meccanismo affascinante, come non ricordare affatto. Quel che conta, comunque, sono le idee e per questo film devo dire grazie a Netflix che mi ha dato grande libertà nel poterlo realizzare esprimendole al meglio.

 

Anche Fellini amava i sogni e il mondo onirico: quanto è stato influenzato da lui e dai suoi film?

Non c’è nessun cineasta che non sia stato infettato da lui, come nessun musicista può prescindere da Bach o da Mozart. Fellini è uno dei santi protettori di chiunque faccia il cinema, un po’ come Buñuel, Jodorowsky, Anderson e altri… Sono dei maestri che ci aiutano a capire come usare il mezzo cinematografico, in quanto simile ai sogni, perché liquido. Il cinema offre una esplorazione liquida di questa esperienza di vita. Buñuel diceva che un film è un sogno diretto da un regista. Questo stato diluito e mescolato è l’essenza più importane del fare cinema. Ci riporta al liquido del grembo materno e ci avvicina a un contatto con il nostro subconscio, che è poi quello che ho cercato di fare con questo film in cui non c’è nulla di logico. Spero che il ‘santo’ Fellini mi abbia protetto”.

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