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Tra cavalli e scimpanzé

Jordan Peele è maestro dell’horror in pieno sole, ma “Nope” manca il bersaglio

Mariarosa Mancuso

Televisione, animali addestrati, registi pazzi, sorveglianza, i neri nella storia del cinema. E poi istanze e messaggi, anche troppi: c’è da perderci la testa. In sala l’ultimo film del regista di “Get out” 

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Avete mai guardato bene gli scatti fotografici di Muybridge con cavallo e fantino? Antenati del cinema d’animazione, era il 1878. Con un ingegnoso sistema di 24 macchine fotografiche, azionate una dopo l’altra dal movimento degli zoccoli, mostrarono che al galoppo le quattro zampe erano sollevate da terra (non però come nei quadri, in completa estensione: i pittori avevano il senso dello spettacolo). Il cavallo di Muybridge è nella storia della fotografia. Non altrettanto il fantino, che era nero, e dunque offre a Jordan Peele – il regista di “Get Out - Scappa” e di “Noi” – lo spunto per questo suo ultimo film, “Nope”. 

La famiglia Haywood vive in un ranch della California, addestra cavalli per il cinema. Sono i bis-bis-bisnipoti dal fantino fotografato da Muybridge. Il patriarca Otis viene ucciso da qualcosa di misterioso che arriva dal cielo, i figli Otis Jr ed Emerald vanno sul set al posto suo. Purtroppo non sono altrettanto convincenti quando raccomandano alla troupe di non guardare il cavallo negli occhi, mentre sta sul set. Succede l’incidente. Non paragonabile alla furia scimmiesca che abbiano visto scatenarsi all’inizio del film. Stanno girando la puntata di una sit-com televisiva. Lo scimpanzé Gordy sfugge ai comandi dell’addestratore (magari si è scocciato per vestitini e cappellino da umano sotto il caldo dei riflettori), e distrugge lo studio con gli attori dentro. Vediamo la scena con gli occhi del bambino Jupe: trova rifugio sotto un tavolo, sfugge alla violenza sanguinaria, osserva i dettagli. 

 

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Trauma, tornerà buono in seguito. Per aggiungere strati a questo film-millefoglie, va ricordato che negli anni 70 lo scimpanzé Chimpsky fu cresciuto da una famiglia come un bambino e istruito nel linguaggio dei segni (il nome fu scelto per sbeffeggiare Noam Chomsky, convinto che il linguaggio fosse innato e non appreso). Date le carte – altre arriveranno, in “Nope” Jordan Peele stipa tutto quel che gli sta a cuore – bisogna metterle insieme. Come faceva Italo Calvino con le carte dei tarocchi, costruendo storie nel “Castello dei destini incrociati”. Affare non semplicissimo. L’imprevedibilità all’inizio del film colpisce: cosa sarà la nuvola misteriosa, e certe luci nella notte con la voce che dice “uscirete cambiati da questo spettacolo”, mentre si sentono i cavalli imbizzarriti nella scuderia.

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Orfani e senza lavoro, OJ ed Emerald si appassionano al mistero della “nuvola che non si muove mai”. Comprano telecamere mobili e altri aggeggi da sorveglianza, e aspettano, nella casa goticheggiante che tanto bene non promette. Il venditore di apparecchi è incuriosito, a sua volta li sorveglia. All’inizio pare un’astronave aliena, e loro sarebbero tanto felici di riprenderla, vendere le immagini al programma di Oprah, diventare famosi. Di mezzo si mette un documentarista pazzo, che per un’inquadratura originale volentieri rischia la vita.

Televisione, animali addestrati, registi pazzi, sorveglianza, i neri nella storia del cinema. C’è da perderci la testa. E rimpiangere la classica semplicità di un film come “Get Out”. Scappa, non puoi fare altro quando la famiglia bianca e sinceramente democratica della tua fidanzata – “avrei votato Obama per la terza volta, se avessi potuto” – sfrutta i neri in maniera (diciamo così) definitiva.

 

Durata di “Get Out”, campione d’incassi nel 2017: 104 minuti. Durata di “Nope”: 135 minuti, la mezz’ora in più pesa. Il minutaggio fa la differenza tra un film di debutto originale e riuscitissimo, e un film di regista affermato, bravissimo a fare l’horror in pieno sole, ma caricandolo di istanze e messaggi. 
 

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