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Tornano gli stangoni blu. A dicembre arriva “Avatar: The Way of Water”

Mariarosa Mancuso

Un terzo episodio è programmato per il Natale del 2024, ognuno costa 250 milioni di dollari. Una valanga smossa a suo tempo, e ora inarrestabile. Ma non è che la total immersion toglie più di quel che regala?

Chi ha voglia di tornare su Pandora? Il pianeta rigoglioso abitato da certi stangoni blu chiamati Na’vi, pettinati con le treccine e tenutari di tutto il bene (e di molti beni) del mondo. Fa testo, ma un po’ esagera, il loro inventore James Cameron, che con questa tremendissima estetica tardo hippie ha guadagnato nel 2009 tre Oscar e soprattutto 2,8 miliardi di dollari. Record assoluto fino all’uscita di “Avengers: Endgame”, dieci anni dopo. Subito riconquistato quando per “Avatar” si è aperto lo smisurato mercato cinese.
    

Su Pandora gli umani si recano dopo aver mischiato in laboratorio i propri geni con quelli dei Na’vi. Creando appunto un “avatar” (sviscerato quando il film uscì in tutti i suoi aspetti pseudo-filosofici, ecologici, post-umani, e mettiamoci pure il peccato originale: gli uomini sono cattivi e vanno su Pandora per depredarne le risorse). Trama che annoia solo a raccontarla, e le immagini bisognava vederle con occhialini 3D a rischio emicrania, 
   

Sapere che a dicembre avremo un altro “Avatar” (e un terzo è programmato per il Natale del 2024) dà l’impressione di una valanga smossa a suo tempo, e ora inarrestabile. Anche se le condizioni ambientali, diciamo così, inviterebbero la Disney alla prudenza. La ditta del vecchio Walt ha già i suoi guai: benefici fiscali revocati in Florida; genitori inviperiti perché ormai la multinazionale è considerata “woke”; il progetto di una comunità a tema – Rancho Magic, con case, alberghi, piscine, tennis e altri spassi – che dovrebbe sorgere in mezzo al deserto e già soffre per la siccità.
      

Ogni “Avatar” costa 250 milioni di dollari (entrambi sono già stati girati, James Cameron ci lavora dal 2017). Ripetiamo: non siamo lo spettatore modello per questo genere di film – perfino i supereroi al confronto sembrano tipi con cui si potrebbe avviare una conversazione. Il trailer di “Avatar: The Way of Water” è più scoraggiante che mai. L’estetica tardo hippie, già pacchiana, ha ora un retrogusto da fantascienza anni 80. Le immagini sembrano una dimostrazione dei progressi fatti dall’animazione per simulare la fotografia subacquea, sinuosi movimenti e trasparenze. La tribù acquatica è anche tecnologica, ha code che finiscono con una presa Usb così che gli umani possano interfacciarsi. Il film precedente, per chi avesse perso la memoria del kitsch tridimensionale, era tutto piante, fiori, criniere, placton luminescente. 
    

Era lo stato dell’arte, dieci anni fa. I film si andavano a vedere al cinema, e non avevamo fatto indigestione di 3D. Con qualche incidente: lo “Hobbit” nella versione più realistica (tre dimensioni e 48 fotogrammi al secondo) era decisamente inguardabile. Non è che preferiamo stare sul divano di casa perché la total immersion toglie più di quel che regala?    

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