cannes 2021

Amore, morte ma anche noia a Cannes. André Dussollier verso la Palma d'oro

Mariarosa Mancuso

Tanti sbadigli per “Ahed’s Knee” di Nadav lapid. Nel memoir “Tout s’est bien passé" c'è forse il prossimo miglior attore, in un ruolo più che ingrato

Non poteva durare, dopo l’inizio flamboyant e operistico, dove si muore al ritmo degli Sparks. Il festival di Cannes ricupera l’abituale compostezza, fatta eccezione per il sito delle prenotazioni – obbligatorie per via del Covid – che funziona malissimo (e purtuttavia si formano le code, anche se il biglietto ordina “non presentarsi prima dell’ora XY). E tenendo conto del caldo: davanti al municipio, sezione stato civile con entrata dalla strada, staziona un agente in bermuda. Le sale invece son gelide: siccome bisogna tenere la mascherina, così si respira meglio.
      

    

I film parlano sempre d’amore e di morte, ma senza musica. “Tout s’est bien passé” – ultimo lavoro di François Ozon che una vena luttuosa ce l’ha da sempre – racconta due figlie e un padre che dopo un ictus vuole essere aiutato a morire. “E come fanno i poveri?”, chiede quando la figlia prediletta gli spiega, in uno dei tentativi di fargli cambiar idea, che l’ultimo viaggio in Svizzera per la pozione fatale costerà diecimila euro. In casa sono ricchi, non è questo il problema. Ma quando Emmanuèle Bernheim – morta a 61 anni, nel 2017 – si era trovata nell’incombenza, la legge francese prevedeva pene severe per l’aiuto al suicidio.
     

Il memoir “Tout s’est bien passé” era uscito nel 2014. Il film di Ozon (Emmanuèle Bernheim aveva sceneggiato per lui un paio di film) non cambia quasi nulla. Il padre era un collezionista d’arte, la madre una scultrice da sempre depressa – la faccia triste di Charlotte Rampling ha trovato il suo ruolo perfetto. La figlia preferita (di due, quella che scrive) è Sophie Marceau, la ragazzina del “Tempo delle mele”: cresciuta (cosa per cui non serve alcun merito) e diventata attrice. 
    

Al cuore del film c’è uno straziante André Dussollier, bravo fino all’inverosimile in un ruolo più che ingrato – per dire, senza il ritegno teatrale che ha Anthony Hopkins in “The Father”. Sarà difficile strappargli la Palma d’oro per il miglior attore, tanto più che mentre il film avanza la battute del moribondo virano verso la commedia nera. Dettaglio da mettere agli atti: il genero che si occupa di cinema viene ritratto come l’idiota della famiglia.
      

"Ahed’s Knee” vorrebbe parlare di tutto, ma riesce a inquadrare soltanto il narcisismo del regista Nadav Lapid. Scarsa la musica, nel pezzo di deserto israeliano dove il protagonista va a presentare il suo ultimo film. Il prossimo, dice, lo vorrebbe fare su Ahed Tamimi, sedicenne attivista palestinese che schiaffeggiò un soldato. Il filmato fece il giro del mondo, la ragazza finì in carcere per qualche mese, qualcuno propose di spararle al ginocchio per azzopparla. Da qui il titolo.
    

Cosa fa un regista di successo in un villaggetto sperduto? Circuisce la signorina venuta ad accoglierlo, per cominciare: l’addetta alla biblioteca, dipendente dal ministero della Cultura (piuttosto belloccia e sensibile al fascino dell’uomo e dell’artista). Poi vaga nel deserto, mandando selfie alla mamma sceneggiatrice che ha lasciato poche ore prima a Tel Aviv. Volentieri urla nel vuoto – potente metafora, direbbero i critici a cui darsi un tono piace più del cinema – dei suoi film. 
        

Più potente è la noia. Proprio da sbadiglio. Fino a che l’incolpevole ragazza mette sotto agli occhi del regista un foglio da firmare. Per il pagamento, ma prima deve segnare con le crocette gli argomenti di cui parlerà. E qui parte una lunga invettiva urlata contro il ministero della Cultura, le sue censure, il suo odio per l’arte vera. Censori che non sembrano tanto temibili, visto e considerato che hanno investito soldi per farsi insultare in questo film. Gli altri denari vengono da Francia e Germania.