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"Pretend it's a city"

Bisbetica e indomata

Simonetta Sciandivasci

I libri, le sigarette, lo sport, il femminismo. Ma soprattutto New York, la città che ci salverà. Fran Lebowitz a ruota libera con Martin Scorsese

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La prima volta che ricevette un assegno di più (molto di più) di cento dollari, Fran Lebowitz non sapeva bene né cosa farci né come riscuoterlo. Fino a quel momento, ogni volta che le avevano dato lo stipendio, era andata a comprare un panino al roast beef all’alimentari di fronte casa sua, a New York, e lo aveva pagato con il suo bravo assegno, di modo da avere il resto in contanti. Ma quella volta non potette farlo, la cifra era troppo alta e bisognava che andasse in banca, accidenti, lei che odiava le banche e odiava i soldi, e non per pauperismo, sinistrismo, francescanesimo o senso di colpa, sia chiaro, ma per la seccatura. “Il denaro non mi hai mai emozionata, mi ha sempre e soltanto terrorizzata”, dice a Martin Scorsese, in una delle molte ore che ha trascorso con lui a parlare delle cose che ama, che la fanno arrabbiare, che non vuole capire, che non vuole cambiare, e che lui ha registrato e montato insieme a vecchi video di lei che cammina per Manhattan, col cruccio in faccia e il cappotto napoleonico addosso, e guarda tutto e tutti incuriosita e incazzata; lei che va in libreria; lei che parla con Spike Lee, David Letterman, Alec Baldwin, Toni Morrison, un fan, due fan, sette, dieci, centosei.

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La prima volta che ricevette un assegno di più (molto di più) di cento dollari, Fran Lebowitz non sapeva bene né cosa farci né come riscuoterlo. Fino a quel momento, ogni volta che le avevano dato lo stipendio, era andata a comprare un panino al roast beef all’alimentari di fronte casa sua, a New York, e lo aveva pagato con il suo bravo assegno, di modo da avere il resto in contanti. Ma quella volta non potette farlo, la cifra era troppo alta e bisognava che andasse in banca, accidenti, lei che odiava le banche e odiava i soldi, e non per pauperismo, sinistrismo, francescanesimo o senso di colpa, sia chiaro, ma per la seccatura. “Il denaro non mi hai mai emozionata, mi ha sempre e soltanto terrorizzata”, dice a Martin Scorsese, in una delle molte ore che ha trascorso con lui a parlare delle cose che ama, che la fanno arrabbiare, che non vuole capire, che non vuole cambiare, e che lui ha registrato e montato insieme a vecchi video di lei che cammina per Manhattan, col cruccio in faccia e il cappotto napoleonico addosso, e guarda tutto e tutti incuriosita e incazzata; lei che va in libreria; lei che parla con Spike Lee, David Letterman, Alec Baldwin, Toni Morrison, un fan, due fan, sette, dieci, centosei.

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Pretend it’s a city” è il secondo documentario che Scorsese gira con lei, il primo nel 2010 per Hbo e ora per Netflix, con il solito, nitido intento: farla parlare. Di poche cose, sempre le stesse, piccole però germinative, come fanno sempre i newyorchesi, unici al mondo ad andare dall’analista per parlare di quanto li disturba e condiziona il frastuono della città, mica per risolvere l’edipo. Nel 1978, quando uscì il suo primo libro, “Metropolitan Life”, che vendette 86 mila copie in pochissimo e fu comprato per 150.000 dollari da un grosso editore (quel primo assegno grosso), il Washington Post scrisse di lei che avrebbe potuto fare l’umorista ed è successo, che sebbene detestasse le mode sarebbe presto stata di moda ed è successo, che odiava il tennis, il giardinaggio, Erica Jong, le lavanderie a secco, la moquette nei bagni, i dessert serviti nei bicchieri di brandy, le Rockettes, gli artisti concettuali, il riso integrale: quarant’anni e passa dopo, non ha cambiato idea su niente, odia le stesse cose, qualcuna di più, nessuna di meno. Sono sessant’anni che porta i capelli a caschetto con la riga al centro, neri, e le camicie maschili con i gemelli, e i Levi’s dritti arrotolati sulle caviglie, e gli stivali da cowboy, e gli occhiali con la montatura tartarugata. E’ quel tipo di newyorchese inossidabile che fioriva quando l’occidente trascurava le periferie, i Papi e campioni non venivano dalla fine del mondo, l’ambizione di tutti era stare al centro e non ai bordi, l’egocentrismo e la vanità erano arte, l’espiazione della decrescita non era cominciata e di egocentrismo e vanità si peccava con grande godimento, senza per questo procurarsi accuse di white privilege. Quel tipo di newyorchese consapevole di vivere nella città che capitanava il mondo libero.

 

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Ha scritto John Updike: il vero newyorchese crede che coloro che vivono altrove stiano in qualche modo scherzando. E’ per questo che non cambia. Perché dovrebbe? Cambiate voi. Ora come quarant’anni fa, per Fran Lebowitz l’aria aperta è “ciò che devi attraversare per entrare dal tuo appartamento in un taxi”. Naturalmente, odia la natura. S’angoscia e annoia in campagna, in vacanza, fuori da New York, dove è arrivata che aveva diciotto anni, dal New Jersey, senza aver finito la scuola, con 200 dollari in tasca che le sembrava le sarebbero bastati per sempre, e invece non erano bastati e s’era messa a fare la tassista – “odiavo lavorare e lo odio ancora” –, perché per fare la cameriera bisognava andare a letto con il padrone. Poi aveva pulito le case del Greenwich Village e di Manhattan, come David Sedaris, che a New York ci era arrivato come lei, senza niente se non la voglia e un cognome greco tutt’altro che d’aiuto: entrambi, in anni e per anni diversi, hanno lucidato infissi, spolverato mensole, rifatto letti, disinfettato cessi di appartamenti meravigliosi, scrivendo di chi li abitava e diventandone così affilati, impareggiabili cronisti. Come in “Gossip Girl”, dove a dispetto delle apparenze è Brooklyn a tenere in pugno l’East Village, il romanzo dell’upper class lo scrive chi la guarda dai gradini sotto, dalle camere separate, dai quartieri dei subalterni e degli estranei. E’ (era?) l’American dream.

 

“La cosa bella del talento è che è distribuito in maniera del tutto casuale: non lo compri, non lo impari. E questo fa impazzire le persone, che allora si mettono a studiare”. Fran Lebowitz scrive Metropolitan life in sette anni perché nel frattempo deve guadagnarsi da vivere, non per perfezionismo, o tigna. “Quando devi ripetere le cose troppe volte, significa che non le sai fare”. Spiccia. Ma incontestabile. Non c’è scuola di scrittura possibile, per lei, che nella vita ha studiato poco ma letto moltissimo, i libri sono la cosa che più conta per lei, e però mai si sognerebbe di dire che per diventare scrittore si deve leggere moltissimo (è una balla, va bene?). I libri sono per lei la cosa che più si avvicina a un essere umano, “e infatti, Martin, non so tu, ma io proprio non so gettarli via, nemmeno se sono brutti, nemmeno se li ho detestati, perché mi sembrerebbe di gettare via un essere umano, per quanto ce ne siano diversi, di esseri umani, che mi piacerebbe gettare via, ma capisci cosa voglio dire”. Certo che capisce, Scorsese. Che infatti lei fa poi dire: “A cosa servono i soldi, se leggi? Insomma, se leggi non hai il tempo di spendere”. E glielo fa dire mentre mostra un vecchio filmato di Serge Gainsbourg che dice “mi tassano al 74 per cento, ora vi mostro cosa mi resta”, e prende una banconota da 500 franchi e la brucia davanti alle telecamera e dice “se mi arrestano non importa, starò a dieta”. Erano altri tempi, nessuno s’offendeva se una pop star cantava una canzone sensuale steso sul letto insieme a sua figlia e nemmeno se bruciava i soldi – adesso se lanci una lattuga per aria durante una festa di compleanno ti viene richiesto di scusarti e spiegare al paese che lo spreco alimentare è un reato morale gravissimo (ricorderete che accadde a Fedez e Ferragni, quando ancora non erano due catechisti).

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A Fran Lebowitz non le stava bene un cazzo nemmeno allora, quando c’era Serge Gainsbourg vivo e si fumava nei cinema, sia chiaro. Quando ci manca il Novecento (e abbiamo ragione: quando ci ricapita Ettore Scola?) tendiamo a dimenticare che pure allora gli estranei ti fermavano per strada chiedendoti come arrivare a Caserta dal Duomo di Milano senza dire ciao o grazie o scusi o per favore né prima né dopo; pure allora c’erano i fissati dello sport; pure allora c’erano i maniaci del benessere – “cos’è il benessere? Un eccesso di salute”. Fran Lebowitz brontola non perché rivuole il passato. Brontola perché provateci voi a farvi andar bene l’umanità quando avete un cervello che vale per sei come il suo. E’ impossibile. “Il brutto di uscire di casa è che c’è sempre tanta gente fuori! Il bello del mio appartamento, oltre al fatto che è stupendo, è che puoi sempre decidere chi farci entrare. Nella hall di un albergo o su un aereo non lo puoi fare – anche se io ci ho provato”. Regina degli incisi. Vi sembra snob? Sì, lo è. Snob, non classista. Proprio perché è snob, quando le cadono i libri, li riprende e li bacia, cosa che non farebbe con un essere umano – “una volta, da piccola, mia madre mi vide che baciavo un libro e mi chiese cosa diavolo stessi facendo: le dissi che me lo avevano insegnato in sinagoga”. E’ attraverso i libri che Fran Lebowitz ama le persone o, se amare è troppo, si avvicina loro. Senza persone, non avrebbe parole da dire, ironie da fare, ire da sfogare: lo sa. Il mondo per lei non è pianeta: è consesso civile, incontri, feste, cultura, produzione. Di praterie non le importa. Non vuole la pace: in pace non si ride. Cerca il conflitto. Quando Letterman le chiese se avesse mai cercato altri con le sue stesse fissazioni o se avesse fatto mai terapia, gli rispose: “Per me la terapia è il lavoro e un gruppo non mi serve. Le mie due attività principali sono tramare vendetta e fumare: posso tramare da sola, al massimo faccio una telefonata”.

 

Le sigarette sono così importanti per lei che quando l’allora sindaco Bloomberg le proibì nei locali di NY, lei lo chiamò e gli disse: “Ma ti rendi conto o no che quando degli artisti stanno in una stanza e bevono e fumano quello che succede si chiama storia dell’arte? Credi che Picasso sarebbe stato Picasso se avesse dovuto alzarsi per andare a fumare in balcone?”. Noi siamo sudditi e dittatori sanitari, vittime e carnefici, viviamo regolati dal principio di precauzione e pensiamo: parla così per via del suo tempo, bisogna contestualizzare, figurati se una sigaretta fa una differenza, se toglie o mette. La Francia cominciò a discutere di eliminare la marca delle sigarette dai pacchetti l’estate di quattro anni fa e Lanfranco Pace scrisse su questo giornale: “Quando Leo Ferré canta T’es una copine de patachon, t’es ma Gitane, t’es mon tison, t’es ma Gitane t’es mon patron non sai mai se sta cantando la sigaretta o la donna, tutte le sue donne, tutte le donne: non sarebbe stata possibile tanta ambigua bellezza, senza sigarette”. Archeologie novecentesche che siamo certi non ci manchino più, fessi che siamo. “Tu parli sempre di noi”, dice Lebowitz a Toni Morrison, la sua più cara amica, alla quale il documentario è dedicato, “la sola persona saggia che abbia mai incontrato, e dire che conosco parecchi intelligenti”. A un certo punto, Scorsese inserisce una chiacchierata pubblica tra loro due sui libri, e mentre Morrison sostiene l’importanza di coinvolgere i lettori, invitarli nel suo mondo, e di come questo si possa fare soltanto ricorrendo al noi, Lebowitz dice: “Io non voglio invitare proprio nessuno e la ragione per cui scrivo è esattamente questa. Il mio ruolo è accusare la gente!”.

 

Per lei i libri non sono specchi, ma porte: non le interessa ritrovarsi in quelli scritti da altri, né che nei suoi si ritrovino gli altri. Non solo non le interessa: fa di tutto perché non accada. Tra il suo secondo e il suo terzo libro passano più di dieci anni: “Ero di cattivo umore”. Non tocca pagina per sfogarsi. Un anno e mezzo fa, in un’intervista a The Cut, Fran ha detto: “Per una vita mi hanno dato della femminista attivista, niente di più sbagliato, proprio non capisco come sia stato possibile visto che per me l’attivismo non serve e se il femminismo funzionasse, non ci sarebbe alcun femminismo, però ammetto che il #metoo mi ha sbalordita, non pensavo che essere una donna sarebbe cambiato e invece è successo, e io credo alle donne perché sono stata una ragazza, so cosa succede, l’ho visto, non pretendo che gli uomini lo capiscano, perché anche i migliori e meglio intenzionati di loro non possono farlo, quello che voglio è che, semplicemente, siano d’accordo con me”. Anche se grezzo, e inconsapevole, questo è femminismo della differenza: non mi serve che tu capisca, caro compagno, mi serve che ti fidi. Durante quella intervista, la giornalista le aveva detto che lei era un’icona per le millennial americane, e che era un fatto sorprendente, visto che non si dichiarava femminista, cosa che attualmente si paga o con la scomunica o con l’indifferenza. E’ lesbica, ebrea, ricca, venuta dal niente, vecchia: tutte cose sulle quali chiunque altro costruirebbe una carriera e invece lei no, lei parla di affitti, mercato immobiliare, taxi, avvocati – “Vivo vicino a uno di quegli studi che si fanno pubblicità dicendo: ehi, se ti sei rotto un dito qualcuno potrebbe doverti dei soldi”. Se ne frega delle battaglie identitarie. La emozionano le cose, la letteratura, il jazz. Piace a chi piace, a chi non piace, a chi non le piace. E’ impossibile non darle ragione, sia che si condivida quello che dice sia che no, perché tutto quello che dice è divertente e divertire è il solo senso sensato delle cose, delle azioni, delle relazioni.

 

Lo dice lei stessa a Martin Scorsese, che per tutto il tempo delle interviste ride, allentandosi la cravatta per respirare: quando ti chiedono perché fai una cosa, “è divertente” è un’ottima risposta mentre “è importante” è una pessima risposta. Quando quel tignoso di Spike Lee insiste per convincerla che a lei non piaccia lo sport perché è di un’altra generazione, e invece adesso le ragazze fanno a gara per giocare a football, lei gli risponde: “Una delle poche cose belle d’essere una ragazza, ai miei tempi, era che a scuola non dovevi giocare a football, e ti assicuro che nessuna di noi voleva farlo, e perché mai avremmo dovuto, per diventare come voi che applaudite e dite abbiamo fatto gol, mentre non avete fatto un bel niente, siete stati seduti a bere birra su un divano?”. E lui che insiste (antipatico, noioso): questo è il punto, lo sport è identificazione! E lei che fa spallucce, e lui che dice: il mondo si è evoluto. E lei che dice: già, si è evoluto in questo modo, anche se io devo dire che avrei preferito più donne al Congresso e meno che giocano al football e quel genio di Scorsese che subito dopo monta un video di lei che gli dice che la sconvolge il fatto che la maggior parte delle cose che le persone fanno quando vanno in vacanza sono attività da prigionieri di guerra, come per esempio scalare una montagna e poi buttarsi di sotto, e dicono di farlo per sfidare i loro limiti e sono soltanto baggianate, perché le sfide non te le scegli, non te le vai a cercare, non te le inventi: le sfide ti piombano addosso e superarle non è un gioco, ma un dovere. Guardi questa signora che nella vita è stata bravissima a farsi pagare per pensare e far ridere, una che ha imparato a scrivere racconti pulendo le case dei ricchi, la guardi camminare come un gerarca per le strade di Manhattan, scuotere il capo sulle scale mobili, sedersi come un ragazzo, dire “l’apocalisse ambientale non mi preoccupa, non sono così giovane” e, del primo che la fece scrivere, Andy Warhol, “non andavamo troppo d’accordo, è andata meglio dopo che è morto”, e capisci che per salvare l’umanità non serve salvaguardare la foresta amazzonica, togliere Twitter a Donald Trump, regalare una crociera a Matteo Renzi, dividere la plastica dall’umido, lavarsi le mani molto spesso, santificare le feste. Serve New York, “la città dove nessuno può permettersi di vivere, eppure siamo otto milioni, come facciamo non lo sappiamo, ma ci riusciamo, avanti, vieni anche tu”.

 

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