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il quadro di famiglia dei “mank”

Lo sguardo dolce di Ben Mankiewicz sul conflitto tra suo nonno e Orson Welles

Simona Siri

Il nipote di Herman applaude l'ultimo film di Fincher: "Non ho conosciuto mio nonno, ma Gary Oldman lo interpreta in modo straordinario". E su "Quarto potere": "Mankiewicz ha ceduto la paternità della sceneggiatura a Welles per denaro"

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Quando chiedo a Ben Mankiewicz se David Fincher lo ha contattato in qualche modo per il film “Mank” risponde: “No, non ha contattato la mia famiglia in alcun modo. Avrei fatto lo stesso. Lo rispetto totalmente. Fincher racconta la storia che suo padre (Frank Fincher, autore della sceneggiatura, ndr) aveva scritto e che voleva raccontare. Il nostro giudizio è irrilevante”.

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Quando chiedo a Ben Mankiewicz se David Fincher lo ha contattato in qualche modo per il film “Mank” risponde: “No, non ha contattato la mia famiglia in alcun modo. Avrei fatto lo stesso. Lo rispetto totalmente. Fincher racconta la storia che suo padre (Frank Fincher, autore della sceneggiatura, ndr) aveva scritto e che voleva raccontare. Il nostro giudizio è irrilevante”.

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Cinquantatré anni, commentatore politico e critico cinematografico, volto noto di Turner Classic Movie, Ben è uno dei Mankiewicz ancora in vita. Suo padre era Frank, figlio di Herman, il protagonista di “Mank”. Frank ha fatto la sua carriera in politica e non nel cinema: nel 1968, era il portavoce della campagna presidenziale del senatore Robert F. Kennedy. Quando, la sera del 5 giugno, dopo aver vinto le primarie in California, Kennedy viene ferito da un colpo di pistola nelle cucine dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, è lui a tenere informati i giornalisti e, all’una di notte del giorno dopo, la faccia stravolta dal dolore e dalla tensione, è sempre lui ad andare davanti alle telecamere per dare al mondo la notizia della morte di Bobby Kennedy.

 

“Mio padre inizia come avvocato nel mondo dello spettacolo, con un paio di clienti famosi, ma presto capisce che non è così che vuole vivere. E quando John Kennedy viene eletto e dice la famosa frase ‘non chiedere cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese’, per lui è una chiamata. A quel punto contatta alcune persone che conosceva all’ufficio del segretario alla Difesa, Robert McNamara”. Padre e figlio Mankiewicz erano moto legati, nonostante i problemi di alcol di Herman. “Mio nonno è sempre stato una figura importante nella famiglia per ovvie ragioni. Perché era uno scrittore brillante, perché era autodistruttivo, perché è morto troppo giovane. E per essere il tipo affascinante che tutti volevano avere intorno. Il rimpianto più grande di mio padre riguardo al rapporto con lui è stato di avere avuto troppo poco tempo: Herman tornava spesso a casa ubriaco e crollava sul letto. L’Herman che mi ha raccontato mio padre era un uomo sempre incredibilmente gentile. E aveva questo rapporto meraviglioso e amorevole con sua moglie, mia nonna, una cosa che credo nel film si veda molto bene. Non era un ubriacone violento o cattivo, mai. Poteva esserlo con Louis B. Mayer o Harry Cohn, ma essere cattivo con certa gente forse andava bene”.

 

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A differenza del padre, morto a 55 anni, Frank è vissuto fino a 90 anni, è morto nel 2104. Chiedo a Ben se il film gli sarebbe piaciuto e lui convinto dice di sì, che lo avrebbe amato, come lo ha amato lui. “Credo di aver pianto una decina di volte, il primo groppo in gola già sui titoli, quando compare la scritta Mank”. Gli eredi di Herman potevano immaginare tutto tranne che nel 2020 un film sul nonno diventasse il caso cinematografico dell’anno. “Mio nonno non è Steven Spielberg o Cecil B. DeMille o Humphrey Bogart. Intanto era uno sceneggiatore, categoria che di solito rimane nell’ombra, per quanto sia ingiusto. Credo che il senso del film sia lì, Fincher ha voluto fare un omaggio alle parole e a chi le scrive”.

 

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E’ anche ovviamente un film sulla paternità di “Citizen Kane”, in italiano “Quarto potere”. Mankiewicz è convinto che il merito della sceneggiatura debba essere attribuita al nonno, dal momento che Orson Welles è intervenuto dopo, per il lavoro di editing e di asciugatura. Nonostante questo ritiene “Quarto potere” un film di Welles al cento per cento perché “lo ha diretto in un modo così visionario che nessun altro avrebbe potuto farlo” e perché lo ha prodotto, interpretato e ha resistito a pressioni enormi pur di arrivare in fondo. Il nocciolo del film però per lui è un altro, è “il riscatto di uno scrittore che ha combattuto per tutta la vita i demoni e la vergogna, la mancanza di rispetto di sé e la sensazione che lavorare a Hollywood non fosse un modo nobile di guadagnarsi da vivere”.

 

Scrivere per il teatro, fare il critico, insegnare, fare il giornalista: quelli per Herman erano modi degni di guadagnarsi da vivere, un concetto che aveva a sua volta assimilato dal padre. “Non c’è dubbio che si vergognasse, che il fatto di essere bravo in quello che per lui era solo una specie di riempitivo ed evasione per le masse lo facesse stare male. Gran parte del bere e del gioco d’azzardo vengono da lì. Che è poi anche il motivo per cui mio padre ha scelto un’altra carriera, un lavoro di cui Herman potesse essere orgoglioso. Certo, se mio padre fosse rimasto a Hollywood oggi abiterei in una casa ancora più bella di quella che mi ha lasciato”.

 

I soldi – o la mancanza di essi – sono ciò che spinge Herman ad accettare il lavoro con Welles e a rinunciare a firmare la sceneggiatura di “Quarto potere”. “Aveva bisogno di soldi, certo. E non voleva fare più compromessi. Detta così suona come una cosa nobile, ma la realtà è che Herman a quel punto si sentiva sconfitto, abbattuto. Voleva scrivere qualcosa di importante, ma se l’accordo era non prendersi il merito e in cambio prendere 10 mila dollari, be’ la scelta era fatta. Per lui aveva senso. Uno dei racconti più vividi di mio padre è di tutte le volte in cui avevano dovuto lasciare la loro casa a Beverly Hills per metterla in affitto allo scopo di racimolare un po’ di soldi. In quelle occasioni si trasferivano in un appartamento sull’Olympic Boulevard, almeno era nello stesso distretto scolastico e mio padre poteva continuare ad andare nella stessa scuola”.

 

 

Ben racconta di un quadro di famiglia, uno di quei cimeli che passa di casa in casa e che al momento ha lui. E’ un ritratto del patriarca, Frank Mankiewicz senior, un uomo difficile, critico, severo. Un professore tutto libri e letteratura, disgustato da Hollywood. E molto esigente con i due figli, Herman e il fratello Joseph: quest’ultimo diventerà uno dei registi più importanti degli anni d’oro degli Studios, vincendo quattro Oscar, due per “Eva contro Eva” e due per “Lettera a tre mogli”, oltre a una valanga di candidature. “Per quanto Frank Sr disapprovasse Hollywood e questo modo frivolo di guadagnarsi da vivere, gli piaceva molto trascorrere del tempo sullo yacht di Joe”.

 

La complicata relazione tra i due fratelli e l’opposto sentimento che nutrivano e in cambio ricevevano dall’industria del cinema potrebbe essere materiale di un altro film, tanto è ricca e complessa. “Joe, più giovane di dodici anni, idolatrava il fratello. Herman all’inizio lo aveva fatto lavorare e Joe aveva preso il volo. Prima come produttore, poi come scrittore e poi come regista. Aveva talento e gli piaceva il lavoro. E sebbene parlasse di Hollywood con lo stesso disprezzo, non si è mai auto-sabotato. Ha prestato un sacco di soldi a Herman, che sono sicuro non abbia mai restituito. A un certo punto deve averne avuto abbastanza di lui e la loro relazione si inasprì. Penso che Joe, quando vinse quei quattro Oscar in due anni, fosse molto soddisfatto di aver superato di gran lunga il successo del fratello, da sempre considerato quello spiritoso e intelligente”.

 

Anche politicamente i due Mankiewicz erano diversi: Herman democratico, Joseph repubblicano. In “Mank” una parte importante è dedicata alla vicenda della candidatura a governatore della California di Upton Sinclar, scrittore democratico con simpatie socialiste e vittima di una campagna diffamatoria messa su, tra gli altri, da William Randolph Hearst: la sceneggiatura di “Quarto potere” sarebbe una forma di vendetta da parte di Mank. E’ il momento del film in cui realtà e finzione si discostano maggiormente. “Sono sicuro che abbia sostenuto Sinclair, ma mio nonno era un bastian contrario: quando era in mezzo a progressisti parlava di come il socialismo avesse fallito ovunque, quando era con Louis B. Mayer o Hearst sosteneva che a fallire fosse stato il capitalismo e che non si poteva non sostenere i candidati progressisti. Una sua citazione famosa è che era contro tutti gli ‘ismi’”.

 

Ben Mankiewicz non ha mai conosciuto il nonno Herman, morto nel 1953 a soli 55 anni. Dalle foto e dai racconti dice però che Gary Oldman l’ha interpretato in modo straordinario. “E ho trovato anche fantastiche le protagoniste femminili, tutte e tre. Lily Collins nel ruolo di Rita Alexander, che è stata davvero fondamentale nell’aiutare mio nonno con la sceneggiatura, e molto fedele. Tuppence Middleton che interpreta mia nonna ha reso benissimo la lealtà, il potere e la coscienza che lei ha rappresentato per lui: è vissuta 32 anni dopo la sua morte ed è stata il più grande difensore della sua memoria. E poi Amanda Seyfried davvero meravigliosa come Marion Davies”.

 

Come ultima domanda gli chiedo se un Oscar al film o a Oldman o a entrambi sarebbe una ricompensa al talento di Herman: a Hollywood le storie di riscatto postumo piacciono sempre. “Hai presente la scena di quando annunciano il vincitore per la migliore sceneggiatura agli Oscar del 1942? Mio cugino ha la registrazione originale e si sente benissimo che dopo che il presentatore dice “… il vincitore è Herman Mankiewicz…" ci sono degli applausi enormi e gente che grida ‘dov’è Mank? Dov'è Mank?’. Poi il presentatore prosegue dicendo ‘… e Orson Welles’ ma a quel punto a nessuno importa più. Ecco, per me quello è la testimonianza dell’affetto che quella comunità aveva per mio nonno, quello che era stato lo scrittore più pagato di Hollywood. Forse non il più rispettato, ma uno scrittore di grosso talento, che aveva avuto momenti difficili per colpa delle sue debolezze. E’ come quando un attore anziano che non vince mai finalmente vince. Non c’è niente di più Hollywood di questo”.

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