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Kim Ki-duk, ovvero lo strano mondo del cinema coreano prima di “Parasite”

Mariarosa Mancuso

Dal Leone d'oro a Venezia alle accuse di molestie. Ritratto del regista scomparso oggi in Lettonia, vittima del Covid

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Kim Ki-duk è un regista che abbiamo odiato. Eppure, più di una volta, ci ha sorpreso con film molto belli (senza revisionismo verso i titolacci, certe lentezze e certe atrocità non si riscattano – e la morale non c’entra, c’entra l’estetica). Non si riferisce a quest’altalena il “controversial” che leggiamo sul Guardian, in ricordo del regista coreano morto oggi in Lettonia dove stava cercando finanziamenti. Lì era finito all’ospedale, malato di Covid-19.

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Kim Ki-duk è un regista che abbiamo odiato. Eppure, più di una volta, ci ha sorpreso con film molto belli (senza revisionismo verso i titolacci, certe lentezze e certe atrocità non si riscattano – e la morale non c’entra, c’entra l’estetica). Non si riferisce a quest’altalena il “controversial” che leggiamo sul Guardian, in ricordo del regista coreano morto oggi in Lettonia dove stava cercando finanziamenti. Lì era finito all’ospedale, malato di Covid-19.

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Il “controversial” si riferisce alle accuse che gli erano state mosse nel 2018 e che avevano coinvolto anche l’attore Cho Jae-hyun: la classica doppietta molestie & stupro, ai danni di tre donne. Il Guardian riassume bene i fatti. Mancavano le prove, il regista fu multato per qualche migliaio di euro, la sua reputazione in patria ne uscì distrutta. Da qui il viaggio in Lettonia. In effetti, lassù hanno una Film Commission che funziona piuttosto bene. Lo sappiamo  dalla newsletter che regolarmente riceviamo, piena di informazioni e bandi di concorso. A Riga, per dire, ci sono al momento un paio di cinema aperti (la stretta finiva il 6 dicembre). Stavamo quasi comprando un biglietto, per vedere l’effetto che fa. 

 

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Voi che il cinema coreano lo avete conosciuto con “Parasite” o con “Snowpiercer” di Bong Joon-ho, non avete idea di cosa volesse dire, prima, “Corea del sud” scritto sotto al titolo di un film. Per non parlare dei registi, con i loro nomi che mai restavano nella testa. Figuriamoci la confusione tra gli attori – va detto, e ora l’hanno capito anche loro: almeno hanno smesso di vestirli uguali. Dettagli che si sarebbero potuti superare, se i film non fossero stati roba per cinefili all’ultimo stadio. Sempre violenti, spesso incomprensibili, e scortati da un manipolo di critici assatanati, scarsi nella sintassi. Prima delle molestie alle attrici, Kim Ki-duk per “L’isola” fu accusato di crudeltà verso i pesci, per via di un sushi tanto fresco che si muoveva ancora. Scena orribile, fece distogliere gli occhi dallo schermo anche ai fan che prima avevano preso appunti su ami da pesca usati là dove Ingmar Bergman preferiva i cocci di bottiglia. Era alla Mostra di Venezia con tutti gli onori, durante il primo regno di Alberto Barbera. Qualche anno dopo Kim Ki-duk vinse il Leone d’oro con “Pietà”: ricordiamo solo l’autoerotismo a mezzo ciottolo – strofinato su un piede, ché il pisello aveva incontrato la sua Lorena Bobbit.

 

Ma intanto c’era stato “Ferro 3”. Un giovanotto va di casa in casa, non per rubare ma per vivere le vite degli altri. Fa la doccia, dorme sul divano, lava i panni, se trova qualcosa di rotto lo aggiusta. Un incanto di film. Molto bello anche “Il prigioniero coreano”: un pescatore del nord sconfina verso sud, ha il motore della barchetta rotto. Lo scambiano per una spia, lo menano, e sarà peggio il ritorno a casa.

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