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Preparate i popcorn

Mariarosa Mancuso

Il Covid detta ancora date e modi, ma si torna al cinema. La Mostra di Venezia, sia pure a tendenza cineclub, è pronta a partire e nelle sale un nero e una supereroina, giusti per i nostri tempi, aprono la parata dei blockbuster. Film da vedere e da evitare. Una guida

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Chi è a dieta legge le ricette, chi ha visto fuggire l’innamorato legge romanzi d’amore, chi da mesi non va al cinema per vedere un film nuovo legge dei film che verranno. Sulla carta – graditissime le smentite, ma siamo festivalieri troppo incalliti per sperarci davvero – la Mostra di Venezia 2020 tende al cineclub. In programma, titoli e registi che in tempi non virulenti avrebbero preso la via di Locarno (il festival svizzero quest’anno ha scelto di aiutare le produzioni indipendenti: quattro mesi di riprese ferme sono un disastro, se il budget è risicato o hai bambini attori che crescono e non sembrano gli stessi di prima). Arriveranno al Lido film diretti dal “prolifico regista kazako” Adilkhan Yerzhanov (una decina finora, l’ultimo intitolato “Yellow Cat”); film che “sfuggono a ogni tentativo di catalogazione” (“In Between Dying” dell’azerbaigiano Hilal Baydarov, genio matematico e caposquadra alle olimpiadi dell’informatica). E altri titoli che puntano a esser dichiarati “emblematici” da chi avrà l’ardire di restare sveglio fino alla fine (o anche no, emblematico non si nega a nessuno).

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Chi è a dieta legge le ricette, chi ha visto fuggire l’innamorato legge romanzi d’amore, chi da mesi non va al cinema per vedere un film nuovo legge dei film che verranno. Sulla carta – graditissime le smentite, ma siamo festivalieri troppo incalliti per sperarci davvero – la Mostra di Venezia 2020 tende al cineclub. In programma, titoli e registi che in tempi non virulenti avrebbero preso la via di Locarno (il festival svizzero quest’anno ha scelto di aiutare le produzioni indipendenti: quattro mesi di riprese ferme sono un disastro, se il budget è risicato o hai bambini attori che crescono e non sembrano gli stessi di prima). Arriveranno al Lido film diretti dal “prolifico regista kazako” Adilkhan Yerzhanov (una decina finora, l’ultimo intitolato “Yellow Cat”); film che “sfuggono a ogni tentativo di catalogazione” (“In Between Dying” dell’azerbaigiano Hilal Baydarov, genio matematico e caposquadra alle olimpiadi dell’informatica). E altri titoli che puntano a esser dichiarati “emblematici” da chi avrà l’ardire di restare sveglio fino alla fine (o anche no, emblematico non si nega a nessuno).

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Tante registe e “Global Arthouse” al Lido, che vuol dire: film d’arte, provenienti dalle periferie del mondo. Noia in agguato

Global Arthouse, scriveva Deadline, sottolineando poi l’alto numero di registe selezionate a Venezia – avete presente quando gli uomini andarono al fronte, e le femmine furono spedite a lavorare in fabbrica, per poi rientrare a casetta quando i maschi ripresero i loro posti? “Global Arthouse” vuol dire: film d’arte, provenienti dalle periferie del mondo. Richiamando irresistibilmente l’invito di Maurizio Milani agli africani: “Lasciate perdere i quadri astratti, cominciate a dipingere le gazzelle”. Insomma, imparate a raccontare storie prima di imitare gli avanguardisti che il cinema lo vogliono morto, o almeno decostruito. In ogni caso, noioso.

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Data fatidica il 26 agosto, quando “Tenet” di Christopher Nolan uscirà nei cinema di 70 paesi, tra cui l’Italia (gli Stati Uniti aspetteranno il 3 settembre, è già allarme rosso per la pirateria internazionale). Segnerà la ripartenza del cinema in sala: il regista lanciato dal movie-puzzle “Memento” rifiuta per i suoi film la sola idea dello streaming, pur osservando con terrore ogni slittamento verso l’autunno (serve ripetere che negli Usa l’estate è altissima stagione, mentre da noi anche prima del coronavirus i cinema avevano in programma “chiusura estiva”?).

  

 

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Ha pure qualche ragione Nolan, a differenza di chi combatte lo streaming per motivi ideologici (e poi magari gira film da camera, con attori scarsi: vederli sull’iPhone potrebbe solo migliorarli). Per girare la scena con l’ala di un Boeing 747 che va a fuoco, sul set californiano truccato da aeroporto di Oslo, con la pioggerellina per dare il giusto grigio – lo racconta il fortunato cronista di Empire, ammesso sul segretissimo set – è stato convocato un aeroplano vero. Spiega Emma Thomas, moglie di Nolan e produttrice dei suoi film: “Ricostruirlo a grandezza quasi naturale sarebbe costato di più, e combinazione ne avevamo trovato uno vecchio in saldo”. Nessuno meglio di lei sa che il consorte odia i blue screen (quando l’attore scappa da un aereo in fiamme, che sul set non esiste perché verrà ricostruito in post produzione) e pretende riprese dal vero.

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In “Tenet” di Nolan, per girare la scena con l’ala di un Boeing 747 che va a fuoco è stato convocato un aeroplano vero

Solo questo sappiamo di un film più misterioso del solito (pensate al fantastico “Inception” ma anche al realistico “Dunkirk”, episodio della Seconda guerra mondiale articolato su tre diverse linee temporali). Dice il trailer: “Non cercate di capire, certe cose bisogna sentirle”. Si sa che è un film di spionaggio, girato in sette paesi. Ma potrebbe essere la fine dei film di spionaggio come li abbiamo conosciuti finora. Bisogna impedire la terza guerra mondiale, una catastrofe – dicono – più grave di un olocausto nucleare. Il lavoro tocca a John David Washington (figlio di Denzel Washington, ma fa sapere di aver negato la parentela quando si presentava ai primi provini – dopo “BlacKkKlansman” di Spike Lee e la candidatura ai Golden Globe non è più possibile). Più sfuggente il ruolo di Robert Pattinson, ormai fuori dall’ombra lunga del vampiro e di “Twilight”.

  

 

Per maggiore segretezza, il titolo di lavorazione era “Merry-go-round”. Il trailer non illumina, si vedono auto che vanno all’incontrario, e buchi da pallottola che “ancora devono succedere”, singolare risposta alla domanda: “Cosa è successo qui?”. Christopher Nolan non poteva girare il solito film di spionaggio e doppiogiochismo, anche che se racconta di essere cresciuto, come tutti i ragazzini inglesi, guardando James Bond. “Gioco con il tempo – dichiara – per cercare di restituire le mie emozioni di allora. Le leggi della finisca sono simmetriche, il tempo va avanti oppure indietro”. Non facciamo in tempo a invocare qualcuno che gli spieghi l’entropia: in un’altra intervista tira in ballo la Nasa, a proposito di universo parallelo in cui il tempo scorre all’indietro. “Tenet” in effetti è un titolo palindromo, uguale anche se lo leggiamo al contrario.

 

Arriva l’eroe nero che sfida l’orologio, e arriva anche l’eroe femmina, “Wonder Woman 1984” (a inizio ottobre). Nessuno riponeva grande fiducia commerciale nella principessa Diana, l’amazzone che salva il mondo in pantaloncini e corsetto (gli uomini combattono protetti dalla tuta, lei a gambe nude – l’attrice è sempre l’israeliana Gal Gadot).

  


Lo schermo anche piccolo è bello. Il lockdown è stato la tempesta perfetta per la piattaforma streaming Disney+ che conta già 60 milioni di abbonati. In uscita “Mulan”, remake di un successo con applausi femministi


  

Le spettatrici dovevano essere ben scarse di personaggi robusti e non lagnosi, o forse gli spettatori adolescenti – miracolo – reggono anche una femmina senza dire “bleah”. Diretto da Patty Jenkins, “Wonder Woman” nel 2017 incassò 821 milioni di dollari, quasi equamente divisti tra mercato americano e internazionale (ne era costati 150). Altrettante ragioni per mettere in cantiere un seguito.

 

Un blockbuster subito in streaming non ha precedenti: i distributori, i gestori e i proprietari di sale sono in allarme – la potenza di fuoco è diversa da quando, in piena pandemia, la Universal mandò in streaming i pupazzetti di “World Trolls Tour”. Diverso anche il prezzo: “Mulan” costerà 29.99 dollari

Dal 1918, quando Wonder Woman e il suo moroso mettono fine al primo conflitto mondiale) saltiamo al 1984, fine della Guerra fredda. Diana Prince – personaggio inventato dallo psicologo William Moulton Marson nel 1941, dopo accurata indagine aveva scoperto che i supereroi erano tutti maschi – vive a Washington, lavora allo Smithsonian e abita nel complesso di edifici noto come Watergate. La nuova nemica è Cheetah (l’attrice Kristen Wiig): posseduta dalla Dea della Caccia, è un ibrido tra una donna e un ghepardo, con velocità, riflessi, forza e sensi sovrumani, e artigli capaci di incidere ogni materiale (sì, già la sapete).

 

Un nero e una supereroina, con un’arcinemica donna, aprono la parata dei blockbuster, che a tanti stanno antipatici ma tengono in piedi l’industria (per questo in gergo li chiamano “tentpole”, i pali che tengono su la tenda). Prima che del cinema si perda l’abitudine: lanciata lo scorso novembre, la piattaforma streaming Disney+ conta già 60 milioni di abbonati. Era la cifra in preventivo per il 2024, raggiunta in meno di un anno a fronte dei cinque previsti. Il virus, i bambini a casa da scuola e l’offerta del musical “Hamilton” (di cui si parla da anni, e che ha reso famoso il nuyorican Lin-Manuel Miranda, ora una delle stelle più brillanti a Hollywood) hanno creato la perfetta tempesta di marketing.

 

Il 4 settembre la Disney farà uscire in streaming “Mulan”, molte volte slittato da marzo in poi (certe date d’uscita sono state più sfortunate di altre, in Italia è successo con “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti, sparito dopo la Berlinale e in sala adesso, dopo le anteprime nelle arene estive). E’ l’ennesimo remake in live action dei gioielli di famiglia: il film d’animazione che ebbe successo e applausi femministi nel 1998. Tratto da una leggenda popolare cinese, quindi ci sono gli estremi per l’accusa di appropriazione culturale (capitò con “Kung Fu Panda” della Dreamworks, nel 2008, ma era soprattutto una questione commerciale: perché lasciamo che gli americani facciano i soldi con le nostre arti marziali?).

 

Diretto dalla regista neozelandese Niki Caro, “Mulan” è una ragazza di un piccolo villaggio della Cina che si finge maschio per arruolarsi nell’esercito imperiale, contro gli unni invasori. Vedranno il film in sala solo i paesi che – primo – non hanno la piattaforma Disney+ (la Francia ha tardato un po’, non per eccezione culturale ma per coronavirus, ora si sono messi in pari) e – secondo – dove i cinema sono aperti. Insomma, gran confusione. Di sicuro sappiamo soltanto che la mossa non ha precedenti, e che i distributori, i gestori e i proprietari di sale sono in allarme – la potenza di fuoco è diversa da quando, in piena pandemia, la Universal mandò in streaming i pupazzetti di “World Trolls Tour”. Diverso anche il prezzo: “Mulan” costerà 29.99 dollari (più i 7 mensili o i 70 annui dovuti per l’abbonamento). Servono dieci dollari in più, rispetto al film con i pupazzetti delle varie tribù musicali minacciate dalla regina del rock (che si poteva però noleggiare anche su altre piattaforme). Ormai gli abbonamenti che si contendono la nostra attenzione e la nostra carta di credito, oltre a Netflix, sono numerosi e vanno poi ammortizzati.

 

Lo faremo solo per “Mulan”, garantisce il ceo della Disney Bob Chapek. Sospiro di sollievo dei distributori e dei proprietari di cinema: trattasi di scelta imposta dalle circostanze, non di un nuovo modello da sperimentare per il futuro. Il timore è che lo rifaranno con “Black Widow”, per esempio, prossimo fiore all’occhiello della casa – la supereroina è Scarlett Johansson, la regista Cate Shortland (ormai la ditta ha tutto, anche i supereroi Marvel e la 20th Century Fox, appena ribattezzata 20th Television conservando la classica grafica e concedendo alle serie storiche di mantenere il vecchio logo).

 

Mandare i blockbuster direttamente in streaming sarebbe una decisione rivoluzionaria per il mercato, come l’accordo stipulato dalla Universal con il circuito di sale Amc: la finestra di sfruttamento esclusivo nei cinema verrà ridotta a tre settimane, da tre mesi che era, dopodiché il film potrà essere visto a pagamento sulle piattaforme – non Netflix, dove tutto è libero, le piattaforme on demand, che fanno pagare i singoli titoli. Secondo Variety, la mossa potrebbe favorire la produzione di film originali, audaci, e senza supereroi. Titoli per un pubblico di nicchia, meglio raggiungibile con un lancio quasi in contemporanea per chi sceglie la sala e chi preferisce il divano del salotto. O non trova una sala nei dintorni che li proietti.

  

Non ci sono supereroi in “The French Dispatch” di Wes Anderson. Non ci sono neppure date di uscita, alla pagina del sito Imdb che dovrebbe riportarle. Per l’Italia si era parlato di ottobre, ma la banca dati che fa testo non conferma. Sarebbe stato fantastico vederlo a Venezia. Ma siccome il direttore di Cannes Thierry Frémaux ha appiccicato sul film il suo bollino, selezionandolo per il suo festival fantasma, il direttore di Venezia Alberto Barbera non lo vuole alla Mostra. Che si svolgerà in presenza, distanziata, con mascherina; e siccome solo in rarissimi casi i critici sono congiunti tra loro ci toccherà di vedere certi film senza il conforto di una battuta che aiuti a superare la noia.

 

Molto atteso l’ultimo film di Wes Anderson ma i direttori di Cannes e di Venezia amano così tanto il cinema da strapparselo di mano. E da sottrarlo alla vista degli spettatori golosi. Dovremo aspettare ancora chissà quanto per vedere la vita dei corrispondenti americani nella cittadina francese di “Ennui-sur-Blasé”

Entrambi i direttori amano così tanto il cinema da strapparselo di mano. E da sottrarlo alla vista degli spettatori golosi. Dovremo aspettare ancora chissà quanto per vedere la vita dei corrispondenti americani nella cittadina francese di “Ennui-sur-Blasé” (il genio si riconosce dai dettagli). Scrivanie, telefoni, matite dietro l’orecchio, gilet, bretelle, appendiabiti cestini da centrare con la carta appallottolata – come in un film americano trasferito in terra di Francia, essendo “The French Dispatch” la costola del Liberty, Kansas Evening Sun. Dichiaratamente ispirato al New Yorker.

  

Tre storie, prese dal supplemento e messe in scena con il consueto sfarzo di attori: Timothée Chalamet, Tilda Swinton, Edward Norton, Bill Murray, Saoirse Ronan, Elizabeth Moss, Adrien Brody, Owen Wilson, Tony Revolori (il lift boy di “Grand Budapest Hotel”). New entry Jeffrey (Roebuck) Wright, che nel film (un po’ anacronisticamente) scrive di cibo: The Private Dining Room of the Police Commissioner. Il personaggio è una sintesi tra l’attivista per i diritti dei neri James Baldwin e di A. J. Liebling, che firmava storie di guerra e storie di sport, tanto bravo da stare nella Library of America assieme a Philip Roth e altri campioni della letteratura americana.

  

Tanto atteso, l’ultimo film di Wes Anderson, che ormai esiste il genere giornalistico “se non potete vedere ‘The French Dispatch’ consolatevi con questi”. Lo fanno Vanity Fair edizione americana, Vanity Fair edizione francese, e Vulture – non essendo peraltro d’accordo tra loro sui film surrogati. Oltre a “Grand Budapest Hotel” (da cui uno scrittore bravo come Peter Cameron parte per compilare una lista di romanzi d’albergo, prima che esca il suo intitolato “Cose che succedono la notte”, a settembre da Adelphi), gli americani mettono “Il palloncino rosso” di Albert Lamorisse, “Il processo” di Orson Welles. “I 400 colpi” di François Truffaut, tra i film prediletti del regista texano, era nella lista dei film che gli attori dovevano vedere a casa, come compito, prima di presentarsi sul set. C’era pure “Vivre sa vie” di Jean-Luc Godard: perdonato (Wes Anderson, non Godard) solo perché risale al 1962 e c’è Anna Karina. Henri-Georges Clouzot compare con “Les diaboliques”, da un romanzo di Boileau e Narcejac che scrissero per Alfred Hitchcock “La donna che visse due volte”. Sempre nei compiti, “Le plaisir” di Max Ophüls – segno che ci sarà anche una storia d’amore, deliziosa come in “Moonrise Kingdom”, tra la ragazza con il mangiadischi e le canzoni di Françoise Hardy e il piccolo esploratore (un po’ indietro su tutto). 


Mille sconsigli per “Siberia” di Abel Ferrara. Il colourism, la nuova colpa della pop culture, perché esistono varie sfumature di nero, ma il mondo dello spettacolo ha sempre preferito i toni chiari. Le questioni razziali e il pol. corr. dei passaporti. Per chiudere in bellezza, Natale con “West Side Story” di Spielberg


 

Roba di primissima qualità, non fosse che la storia del cinema la conosciamo, e moriamo dalla voglia di vedere film nuovi che non siano – per esempio – “Sportin’ Life” di Abel Ferrara. Sarà fuori concorso alla Mostra di Venezia, per saggiarne la terribilità sappiate che alla scorsa Berlinale era in programma “Siberia”, diretto da Abel Ferrara con il compagnuccio Willem Dafoe, suo vicino di casa a Roma. Non pago di infliggere agli spettatori “immagini tanto sconnesse che sembrano voler provocare reazioni violente” – lo scrive Wendy Ide su Screen International sintetizzando il tutto in una parola: “troll” – a Berlino cominciò a girare un documentario sull’esperienza. Sintesi nostra, illuminati da “Hollywood Ending” di Woody Allen, quando a Cannes applaudono il lavoro del regista cieco: “Vediamo se anche stavolta riesco a prenderli per i fondelli”. Operazione riuscita: il film di risulta, o sottoprodotto (decidete voi quale parola fa al caso), viene invitato con tutti gli onori alla Mostra di Venezia da Alberto Barbera.

  

  

“Tenet” di Christopher Nolan ha un eroe nero per i nostri tempi, al netto della confusa cronologia (quindi pensato con un certo profetico anticipo, un film così richiede anni). In una rara immagine senza esplosioni o inseguimenti, John David Washington guida un motoscafo, con una bionda hithcockiana adagiata sul divanetto

Volendo accertare di persona la gravità della bufala, “Siberia” è nelle sale dal 20 agosto. Tra mille sconsigli: ci siamo sacrificati e non servono altre sofferenze. Meno che mai altri spettatori che colgano l’occasione per disamorarsi del cinema. Mentre Abel Ferrara filmava l’accoglienza a “Siberia”, per non perdersi neanche un applauso dei fan, è arrivato il coronavirus. Prontamente inglobato nell’opera d’arte (sempre tutta in fieri, in movimento, riflette il subbuglio interiore dell’artista – che intanto è uscito a cena). Appunto “Sportin’ Life” che vedremo al Lido. Privo di qualsivoglia sceneggiatura, bastano Abel Ferrara e il suo ombelico. O la sua casetta, con la moglie che cala gli spaghetti mentre la figlioletta gira in cucina. Non è un frutto della nostra malata fantasia: è la trama di “Tommaso”, fuori concorso a Cannes nel 2019.

  

“Tenet” di Christopher Nolan ha un eroe nero per i nostri tempi, al netto della confusa cronologia (quindi pensato con un certo profetico anticipo, un film così richiede anni). In una rara immagine senza esplosioni o inseguimenti, John David Washington guida un motoscafo, con una bionda hithcockiana adagiata sul divanetto. Su altra scala, i francesi si sono portati avanti con “Tout simplement noir” di Jean-Pascal Zadi et John Wax, nelle sale a luglio. Un finto documentario con un attore nero che organizza a Parigi una manifestazione “Black Lives Matter” (prima di George Floyd c’era stato nel 2016 in Francia Adama Traoré, originario del Mali e morto a 24 anni in una stazione di polizia). La marcia contro il razzismo rimedia una decina di colleghi, tutti convinti dopo sfinenti discussioni. Tra le molte guest star, il regista di “La haine” Matthieu Kassovitz: nella parte di se stesso rifiuta di scritturare il regista e protagonista del mockumentary Jean-Pascal Zadi perché “non abbastanza nero per un film con gli schiavi”.

 

Apprendiamo intanto dal Guardian che oltre al razzismo la pop culture deve scontare un’altra gravissima colpa: il “colourism”. Esistono varie sfumature di nero, ma il mondo dello spettacolo ha sempre preferito i toni chiari. Conduce alla nuova consapevolezza Beyoncé – vi aspettavate qualcun altro? In “Black is King” (c’era forse altro? vale più di cento proclami o manifesti) fa notare il nero nerissimo e lucente di Lupita Nyong’o, scelta dal regista Steve McQueen per la parte della disgraziata da frustare a sangue in “12 anni schiavo” (la vera storia del rapimento di Solomon Northup, quando al nord i neri erano liberi e al sud ancora prosperava la schiavitù).

 

Il dannatissimo “colourism” risulta da una ricerca universitaria (ce n’è sempre una per confermare tutto, il contrario di tutto, e massimamente le ovvietà). E i media sono sotto accusa perché preferiscono il chiaro allo scuro. Tra un po’ non potremo più neanche sostenere che “gli uomini preferiscono le bionde”, senza innescare e perpetuare torti che alla fine dovranno essere risarciti. Lupita Nyong’o conferma: cresciuta in Kenya, le dicevano che era troppo scura per fare televisione. Conferma anche Matthew Knowles, genitore 1 di Beyoncé: ci sono in giro tante ragazze nere, ma quelle che hanno successo sono meno nere delle altre.

 

Mezza portoricana e mezza dominicana, Zoe Saldana si è scusata per aver accettato qualche anno fa la parte di Nina Simone, in “Nina” diretto da Cynthia Mort. Fondotinta scuro, parrucca afro, pure un naso posticcio. Basta per evocare la “blackface” usata sui palcoscenici e sui set per decenni. Nel “Cantante di jazz”, primo film sonoro del 1927, è un giovanotto ebreo che non vuol cantare in sinagoga, preferisce il jazz. Quindi si pittura la faccia di nero per mimetizzarsi nei club. Succede nella trama, e succedeva in sala trucco: l’attore si chiamava Al Jolson (nato in Lituania con il nome di Asa Yoelson).

 

Nel 2008 – ancora si poteva far pronunciare al cinema la parola con la enne, se il personaggio era una stronza razzista – il francese Etienne Chatiliez girò “Agathe Clery”. La manager di una ditta di cosmetici, dove si producono creme per la pelle diafana, a causa di uno strano malanno si ritrova con la pelle nera. Perde fidanzato e lavoro. Ne ritrova un altro – dopo musicali peripezie – in un posto dove il razzismo scatta contro la pelle bianca. Scandaloso, ma non abbastanza per far salire gli incassi.

 

Altra materia delicata, la copertina di Vanity Fair con Viola Davis, l’unica in 107 anni scattata da un fotografo nero. Interrogato, Dario Calmese sottolinea il record e dichiara che è arrivato “il momento dell’extra black”. Non basta più essere neri, serve un extra. Lo scatto inquadra la schiena nuda dell’attrice, vestita tono su tono in seta blu MaxMara – ricordate “Moonlight” di Barry Jenkins, “la pelle dei neri è blu sotto la luce della luna”? La posa rimanda a “The Scourged Back”, fotografia del 1963 nota anche come “Whipped Peter”: uno schiavo fuggitivo con la schiena devastata dalle frustate, era il 1863.

 

“Con una sfumatura meno scura il fotografo non avrebbe osato, il nero profondo suggerisce l’associazione tra donne e schiavitù”, lamenta un censore (e allora, quando lo fa un regista come Steve McQueen, e vince pure l’Oscar?). Una precedente copertina, sempre di Vanity Fair, era stata criticata perché luci e trucco non avevano valorizzato a dovere la pelle nera. La questione prima o poi scoppierà anche al cinema, sotto accusa i direttori della fotografia e il reparti trucco. Ultimo dettaglio: Viola Davis con la chioma di capelli afro non l’avevamo mai vista, nei primi film era sempre stiratissima.

  

Stando così le cose, il grande successo del 2021 (assieme ai film che salteranno un anno, come “Top Gun - Maverick” con Tom Cruise, il prossimo capitolo della saga “Star Wars”, e nel nostro piccolo Nanni Moretti che con “Tre piani” – dal romanzo di Eshkol Nevo – scansa le lusinghe veneziane per poter essere a Cannes) potrebbe essere “Judas and The Black Messiah” di Shaka King. Con Daniel Kaluuya, l’attore di “Get Out”, racconta la storia di Fred Hampton, fondatore delle “Black Panther”, morto ammazzato a Chicago quando aveva 21 anni, nel 1969. Va detto che il governo, l’Fbi, la polizia gareggiavano per liberarsene, e pagarono un informatore che lo tradì.

 

  

Per la polemica, è bastato il trailer (vige sempre la regola: meno se ne sa, più violente scoppiano). Perché un attore inglese come Daniel Kaluuya nella parte di un attivista americano per i diritti civili? Era già successo (come quasi tutto) con Cynthia Erivo nel film “Harriet” di Kasi Lemmons, dedicato a Harriet Tubman: nata schiava, riuscì a fuggire e poi coraggiosamente tornò al sud per cercare la sua famiglia. Un nome legato alla Underground Railroad, la rete di sentieri, case sicure e altri nascondigli usati dagli schiavi in fuga: Colson Whitehead ne parla, con qualche licenza storica, nel romanzo “La ferrovia sotterranea”, tra i libri prediletti da Barack Obama. Ed era successo con David Oyelowo, inglese di passaporto e nigeriano di origine, scelto da Ava DuVernay – la regista che lanciò #oscarsowhite – come Martin Luther King in “Selma”.

 

Spiega Shaka King (doverlo fare è sempre cosa brutta): “Sono nato negli Stati Uniti, la mia famiglia viene dai Caraibi, ho un cognome sudafricano. Appartengo alla diaspora e ragiono di conseguenza. Gli africani deportati nel mondo hanno più cose in comune di quanto si pensi”. Non è neppure la prima volta che su Daniel Kaluuya si abbatte la stessa critica. Lo aveva accusato Samuel L. Jackson per “Get Out - Scappa”: è una storia americana, perché un attore inglese? Perché Jordan Peele, regista e sceneggiatore di “Get Out”, così aveva deciso. E son giudizi insindacabili, se volete che il cinema fatto bene continui a esistere. Per il reparto Risarcimenti, Offese & Vittimismi, rivolgersi altrove.

  

Jordan Peele fa la sua parte girando film horror. Nessun mostro spaventa più dei bianchi che avrebbero voluto un terzo mandato per Obama, e intanto vampirizzano i robusti corpi neri. Lo riconosce, sull’ultimo numero di Vanity Fair, Tananarive Due, che si occupa di questioni razziali, con un occhio all’estetica, alla Ucla. Ricordando sua madre – attivista per i diritti civili e pure lei appassionata di storie spaventose, anche se non ebbe proprio una vita semplice – parla tra l’altro di “Candyman”, remake del film uscito nel 1992 con la specifica (per gli spettatori italiani) “Terrore dietro lo specchio”.

  

Il nuovo “Candyman” diretto da Nia DaCosta, con Jordan Peele tra gli sceneggiatori, uscirà a ottobre. All’origine, una storia di Clive Barker intitolata “Proibito”: una studentessa a caccia di folklore moderno si imbatte nella storia di Naceur, il figlio di uno schiavo torturato e ucciso. Nello stesso articolo si parla di “Antebellum” che nelle intenzioni dei registi Gerard Bush e Christopher Renz dovrebbe fungere da risarcimento per i guai combinati da “Via col vento” di Victor Fleming (o chi per lui, si alternarono dietro la macchina da presa cinque registi). Con spirito di vendetta tutto cinefilo: fa sapere di aver usato gli stessi obiettivi che inquadravano Vivien Leigh e la dolce vita nelle piantagioni. Per gli horror bianchi, e in particolare “A Quiet Place 2” di John Krasinski con Emily Blunt bisogna aspettare il 2021.

  

  

La copertina di Vanity Fair con Viola Davis, l’unica in 107 anni scattata da un fotografo nero. E’ arrivato “il momento dell’extra black”, dice Dario Calmese. Stando così le cose, il grande successo del 2021 potrebbe essere “Judas and The Black Messiah” che racconta la storia di Fred Hampton, fondatore delle “Black Panther”

Pur con il cuore straziato dopo il sondaggio che dichiara Sean Connery il miglior agente segreto 007 di tutti i tempi, attendiamo a novembre “No Time to Die” diretto da Cary Joji Fukunaga. E’ stato il primo film importante a rimandare l’uscita per via del coronavirus, e intelligentemente ha scelto una data abbastanza lontana da non doverla spostare di continuo. Sarà l’ultimo con James Bond con Daniel Craig, chissà perché considerato poco adatto al ruolo. Per non parlare del fatto che i film con Sean Connery erano giocattoloni mentre “Skyfall” di Sam Mendes è bellissimo anche per chi non ama il genere.

 

Per chiudere in bellezza un anno sfortunato (e non vogliamo versare più lacrime sui festival perduti o ridimensionati) a Natale arriverà “West Side Story” di Steven Spielberg. Remake – ebbene sì, remake – del film di cui il regista, a Phoenix negli anni Cinquanta, conosceva soltanto la colonna sonora (sua madre era pianista, era l’unico album non di musica classica ammesso in casa). Il musical era andato in scena a Broadway nel 1957, tratto da un romanzo di Arthur Laurents, musiche di Leonard Bernstein, e parole di Stephen Sondheim, il genio – oggi novantenne – che ha rivoluzionato il teatro musicale americano. Il film era del 1961, con Natalie Wood diretta da Robert Wise. Unica portoricana del cast, Rita Moreno che vinse un Oscar. Torna nel film di Spielberg, in una particina e come produttrice. O sarebbe meglio dire garante. Mette al riparo dalle critiche “era meglio il vecchio film” e certifica che sono stati scritturati molti più attori portoricani, per cantare e ballare “Life can be bright in America”. L’inno alla gioia degli integrati, che riceve come sdegnosa risposta dai giovanotti delle gang: “If you’re all white in America”.

 

“Non era solo una storia degli anni Sessanta. Quei tempi sono tornati, e con molta rabbia” aggiunge Spielberg che vede nel nuovo film “pride and actual prejudice”, orgoglio e pregiudizi contemporanei. Le coreografie sono di Justin Peck del New York City Ballet, il copione di Tony Kushner, i giovani amanti nati sotto una cattiva stella sono Ansel Elgort e Rachel Zegler. Dovrebbero essere portoricani, anzi nyuoricans, ma evidentemente Steven Spielberg voleva andare sul sicuro, con i suoi protagonisti e primi ballerini. Il primo che dice – senza aver visto il film – “non c’era bisogno di rifarlo”, ricordi che tutto è copiatura: la trama viene da Shakespeare, “Romeo e Giulietta”.

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