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Vino dolce, Natale amaro

Camillo Langone

Nessuno se li fila, i vini dolci, e quindi entra in gioco anche il piacere dello snobismo, in me trainante

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Il Natale rinchiuso nel mio comune di residenza, lontano dal mio sangue, dalle mie radici e dal mio futuro, è una prospettiva amara, devo dunque sbrigarmi ad addolcire la situazione. Non lo faccio coi dolci, lo faccio coi vini dolci. Nessuno se li fila e quindi entra in gioco anche il piacere dello snobismo, in me trainante. Nessuno se li fila, né fra i bevitori di alto livello, perché nei decenni scorsi troppi simil-passiti simil-Pantelleria hanno sputtanato l’intero scaffale, né fra i bevitori di basso livello, perché la loro voglia di zucchero è ampiamente soddisfatta dall’ignobile spritz se non dal prosecco che, non mi stancherò mai di ricordarlo, davvero secco non lo è mai. Che poi la dolcezza è un mondo e un mondo variegatissimo a dispetto degli innumerevoli manichei del vino (quelli che il vino è dolce o secco, quelli che il vino è bianco o rosso, quelli che il vino è naturale o convenzionale…).

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Il Natale rinchiuso nel mio comune di residenza, lontano dal mio sangue, dalle mie radici e dal mio futuro, è una prospettiva amara, devo dunque sbrigarmi ad addolcire la situazione. Non lo faccio coi dolci, lo faccio coi vini dolci. Nessuno se li fila e quindi entra in gioco anche il piacere dello snobismo, in me trainante. Nessuno se li fila, né fra i bevitori di alto livello, perché nei decenni scorsi troppi simil-passiti simil-Pantelleria hanno sputtanato l’intero scaffale, né fra i bevitori di basso livello, perché la loro voglia di zucchero è ampiamente soddisfatta dall’ignobile spritz se non dal prosecco che, non mi stancherò mai di ricordarlo, davvero secco non lo è mai. Che poi la dolcezza è un mondo e un mondo variegatissimo a dispetto degli innumerevoli manichei del vino (quelli che il vino è dolce o secco, quelli che il vino è bianco o rosso, quelli che il vino è naturale o convenzionale…).

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Si va dall’amabile, dall’abboccato, dal semisecco (aggettivi semimorti, me ne rendo conto) di certi vini di tradizione contadina fino al dolcissimo di molti vini da uve disidratate. Si va dai mosti parzialmente fermentati, frizzanti da cinque o sei gradi perfetti sui dolci lievitati, ai vini liquorosi che Veronelli genialmente definì “da meditazione” per dire che non necessitano di abbinamento alcuno. Eccetera. Se a Natale voglio essere dolce e frizzante al contempo, e lo voglio, devo stappare il Fior d’Arancio nella versione spumante dolce di Maeli, l’azienda di Elisa Dilavanzo regina del moscato. Tutto di questa bottiglia è femmina, anche i 6 gradi alcolici, anche la provenienza dai Colli Euganei che Comisso considerava un Giardino delle Esperidi, ossia delle ninfe. Oppure, in ambito più maschio e meno dolce, dalle parti dell’abboccato, la Fortana Nebbia e Sabbia che è vino da salumi, vino da Guareschi e Don Camillo, vino con piccola gradazione (8 gradi) e un grosso problema: costa troppo poco, e si sa come questo possa nuocere alla credibilità di una bottiglia presso un pubblico col palato asfaltato dai pregiudizi.

 

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Terzo vino mosso, molto mosso, che auspico sulla mia tavola delle feste è il Dhjeté di Musto Carmelitano, prodotto a Maschito, in Lucania. E’ un altro moscato ma con la particolarità della rifermentazione in bottiglia e del tappo a corona, mia preferenza assoluta in materia di tappatura. Tannico dice di abbinarlo al pesce e io sono per la libertà di abbinamento e di tutto il resto, per me potete abbinarlo anche al brasato di cinghiale: non a casa mia, però.

 

Passo ai dolci fermi. Al Torcolato di Firmino Miotti, quello che secondo Virgilio Scapin “pareva miele alla densità e al colore che tirava su le fèmene anemiche”. Anche secondo me. Dirò di più: il Torcolato di Miotti è una quintessenza, è l’età dell’oro, è il sogno realizzato del Veneto felice, insomma il miglior vino dolce di cui serbi memoria. Dopo una simile etichetta non si può che cambiare gioco, spostarsi dal profano per accostarsi al sacro. A Natale sulla tavola credente ci vuole un Sagrantino di Montefalco e però di quello Passito che è il Sagrantino originario, pensato per la messa come lo stesso nome ricorda. Fra le aziende dico Antonelli San Marco perché l’ho bevuto da poco e perché quando si parla di vino da messa un evangelista è quello che ci vuole: “Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: Questo è il mio sangue”.

 

Non è un dettaglio da poco il colore di tale vino: rosso. L’eucaristia è valida anche col bianco, anzi è questo a venire usato nella maggior parte dei casi, siccome non macchia tovaglie e paramenti, motivazione pratica e mediocre che ricorda tanto la messa di Mezzanotte alle dieci. Cosa cambia? Ovviamente sulla mia tavola un Sagrantino non sarà consacrato, sarà però un ricordo, una nostalgia, una goccia di resistenza contro l’attacco alla liturgia sferrato dalla politica nel silenzio acquiescente della Chiesa di Papa Bergoglio. Non voglio finire con una nota triste e allora concludo col Michelangiòlo Chinato, il sangiovese magnificamente drogato (speziato) da Baldo Baldinini per l’azienda Calonga di Forlì: uno dei pochissimi vini che non soccombono di fronte al cioccolato. Sangue di Romagna, auspicio di rinascita.

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