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Una dignità senza confini

"Dignitas infinita" e gli interrogativi più urgenti che urtano l'essere umano

Roberto Colombo

Il documento vaticano lascia da parte l’apologia e si concentra sui temi culturali, tecnologici, sociali e politici che agitano l’umana esistenza. Ricordando che l'incommensurabile dignità della vita è trina: ontologica, morale, sociale

La Santa Sede ha pubblicato ieri un documento che sottende numerose questioni della vita individuale e sociale dell’uomo attraverso l’appello al riconoscimento dell’incommensurabile dignità che costitutivamente denota la sua vita e le relazioni umane, e ne fonda l’inviolabilità. Dignitas infinita (DI) è il titolo: la dignità dell’uomo non ha confini, né cronobiologici e fisiopatologici, né geografici, circostanziali, economici o politici. La sua sovreminente misura è riposta nella sua origine e nel suo destino, che sono “in-finiti”, non confinati nella finitudine antropologica, ma radicati nel mistero di Dio creatore e redentore di tutto il genere umano.

 

 

L’appello alla “dignità umana” che risuona in testi e contesti del dibattito civico, morale e giuridico sulla persona, la famiglia e la vita pubblica non è certo una voce nuova o recente, né nel coro cattolico, né in quello secolarista. L’enfasi per il rispetto della dignità umana, che spesso si traduce nella proposizione di “antichi” e “nuovi diritti”, e lo sdegno per le sue violazioni, riempiono i dialoghi informali e i discorsi ufficiali di ogni provenienza e schieramento.
 

Il ricorso frettoloso a questo concetto – tanto ripetuto quanto poco riflesso criticamente e precisato nei suoi fondamenti – per mettere sul piatto della bilancia delle questioni disputate un peso cui difficilmente se ne può contrapporre un altro di pari gravità, ha suscitato allergie e sospetti nei suoi riguardi. I più maliziosi vi hanno visto un modo sleale di troncare una discussione, lasciando il contendente privo di appello a ulteriori istanze. Con maggiore benevolenza, altri hanno sottolineato la debolezza o inconsistenza di un “uso facile” della nozione di dignità, frequente ma scarsamente ragionato nelle sue implicazioni antropologiche, etiche e giuridiche.
 

Vent’anni fa, in un editoriale per la rivista della British Medical Society, titolato “La dignità è un concetto inutile”, Ruth Macklin scriveva: “Un esame più approfondito di esempi rappresentativi [dell’uso di questo concetto] mostra che i richiami alla dignità altro non sono che vaghe riaffermazioni di altre, più precise nozioni, o semplici slogan che non aggiungono nulla alla comprensione dei problemi”. E denunciava questo abuso dell’idea di dignità, che ha invaso anche testi e contesti “laici”, come indotto da “molte fonti religiose che si riferiscono alla dignità umana, specialmente ma non esclusivamente quelle degli scritti della Chiesa cattolica romana”. Considerazioni storiche a parte – conclude la Macklin – questo concetto “può essere eliminato senza alcuna perdita di contenuto”. (Bmj, 2003).
 

La dichiarazione del Dicastero sembra una risposta indiretta a questa e altre critiche sollevate nei confronti dell’espressione “dignità umana” e del suo uso nelle discussioni sulla tutela e promozione della vita dell’uomo nelle diverse circostanze in cui essa è esposta al rischio di violazioni gravi e reiterate, sia a livello individuale che collettivo, che coinvolgono anche intere popolazioni, etnie o categorie di persone. Leggendo i sessantasei densi paragrafi ci si accorge però che nel testo prevale la dimensione fondativa e documentativa. Esso lascia sullo sfondo le ombre della replica e dell’apologia per concentrarsi sulle risposte a interrogativi vivaci e urgenti che sorgono da situazioni in cui l’umano è urtato, frammentato o provocato da onde culturali, tecnologiche, sociali, economiche, conflittuali e politiche che agitano l’umana esistenza in questi primi decenni del terzo millennio, ma che hanno un’origine che le ha precedute e innescate. Ciò che unifica questo catalogo non sono le diverse branche dell’etica e del diritto e i loro oggetti formali – come la bioetica, l’etica economica, il biodiritto o l’antropologia e la morale della sessualità – ma l’approccio dell’argomentazione: quello a partire dalla dignità umana.
 

È la storia del documento che rende ragione della sua natura. Esso prende le mosse dalla constatazione – comune anche ai critici del concetto di dignità umana – dell’accezione plurale che connota questa idea polisemica, non scevra da ambiguità e usi strumentali, ma che raccomanda un supplemento di comprensione ragionata più che una sbrigativa cancellazione dal lessico dell’antropologia, dell’etica e del diritto. Un esercizio della ragione che non è impervio all’intelligenza aconfessionale della realtà e delle sue articolazioni culturali, sociali e storiche, ma per il quale la Rivelazione divina offre un punto di fuga attraverso la categoria della possibilità che la dignità propria dell’uomo trascenda la sua finitudine – sia, appunto, “in-finita” – trovando il fondamento nella creazione-redenzione divina.

Tra le quattro “distinzione del concetto di dignità: dignità ontologica, dignità morale, dignità sociale e infine dignità esistenziale”, il documento pone a fondamento del proprio impianto argomentativo la prima, quella ontologica, assunta nel quadro dell’antropologia teologica cristiana. È quella “che compete alla persona in quanto tale per il solo fatto di esistere e di essere voluta, creata e amata da Dio.
 

Questa dignità non può mai essere cancellata e resta valida al di là di ogni circostanza in cui i singoli possano venirsi a trovare” (DI, 7), a differenza delle altre tre, che non sono incondizionate, ma esposte al serio rischio della dipendenza dalle condizioni fisiche, psicologiche, sociali, storiche e politiche nelle quali la persona si trova a vivere nel corso dei suoi anni o in conseguenza delle azioni proprie o altri.  

Al di là delle determinazioni e declinazioni in casi specifici di violazione o mancato riconoscimento della dignità umana, dettagliati nella quarta parte e per le quali il dissenso sul documento potrà farsi sentire tra i non credenti e forse anche in seno alla stessa Chiesa, la posizione che maggiormente si discosta dal pensiero culturalmente dominante è quella dal recupero di una concezione forte di dignità umana, con valenza di criterio obiettivo e di fondamento irrinunciabile. Una concezione ultimamente ancorata nell’immagine di sé che Dio ha impresso nella creazione dell’uomo, nell’elevazione della sua dignità in Cristo, nel destino di gloria eterna, e nella vocazione della sua libertà al bene.
 

Altra, invece, è la concezione soggettiva della dignità: che un essere umano siano degno oppure no di nascere, crescere, vivere e morire a suo tempo non lo indicano la sua origine ed il suo destino, ma una un giudizio di meritevolezza espresso dal soggetto stesso, da altri, dalla collettività o dalla sua rappresentanza politica. Un approccio convenzionale o contrattuale-sociale in termini più o meno ragionevoli, più o meno persuasivi, più o meno basati su elementi oggettivi riconosciuti anche da molti, non certo da tutti.
 

Arbitro di questo contenzioso resta lo Stato, per il quale – anche in riferimento alla dignità o meno della vita dei cittadini e ai conseguenti diritti affermati o negati – vale però il cosiddetto teorema di Böckenförde, formulato nel 1967 dal giurista tedesco: “Lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire”. Il superamento di questa concezione debole della dignità dell’uomo e dei suoi diritti, che lo mette in balia di una nave senza un ancoraggio tenace, passa solo attraverso un riferimento oggettivo per la libertà umana, senza il quale il concetto di dignità viene di fatto assoggettato ai più diversi arbitrii e al potere.
 

Se così fragilmente è intesa la dignità dell’uomo, anche la pace è in pericolo. Francesco lo ha detto al Corpo diplomatico all’inizio dell’anno: “La via della pace esige il rispetto della vita, di ogni vita umana, a partire da quella del nascituro nel grembo della madre, che non può essere soppressa, né diventare oggetto di mercimonio. Al riguardo, ritengo deprecabile la pratica della cosiddetta maternità surrogata, che lede gravemente la dignità della donna e del figlio”. E ha constatato “il persistente diffondersi di una cultura della morte, che, in nome di una finta pietà, scarta bambini, anziani e malati”. Si tratta di fondamenti antropologici e giuridici “razionalmente evidenti e comunemente accettati. Purtroppo, i tentativi compiuti negli ultimi decenni di introdurre nuovi diritti, non pienamente consistenti rispetto a quelli originalmente definiti e non sempre accettabili, hanno dato adito a colonizzazioni ideologiche, tra le quali ha un ruolo centrale la teoria del gender, che è pericolosissima perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali. Tali colonizzazioni ideologiche provocano ferite e divisioni tra gli Stati, anziché favorire l’edificazione della pace”. E’, questo, forse, l’esempio ripreso nel documento che più farà discutere, perché chiede di assumere la prospettiva ontologica della dignità uomo-donna come capace di valorizzare la identità-differenza sessuale quale vertice della libertà umana di aprirsi al compimento del desiderio di bellezza, di felicità e di pace che è indelebilmente iscritto nel cuore di ognuno di noi.
 

Roberto Colombo è membro della Pontificia accademia per la vita

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