(foto LaPresse)  

Tra Kyiv e Mosca non può esistere alcuna mediazione papale

Zelensky ha posto un aut aut irricevibile per la Santa Sede: o condannate la Russia o non vi ascoltiamo

Matteo Matzuzzi

L'Ucraina vuole che il Vaticano condanni esplicitamente l'aggressione di Mosca, ma Francesco non può spingersi a tanto: significherebbe entrare in gioco e finire nella schiera degli occidentali che combattono il Cremlino

La visita di Volodymyr Zelensky dal Papa è servita se non altro per mettere una parola tombale su ogni possibilità di mediazione vaticana. Non può esserci, perché a non volerla è prima di tutto l’aggredito, che non vuol sentire parlare di tregue – che consoliderebbero lo status quo sul campo – e di una pace che preveda qualche concessione a Mosca affinché si ritiri. Zelensky l’ha detto in modo chiaro due ore dopo i quaranta minuti di colloquio con Francesco e già l’asciutto comunicato diffuso dalla Santa Sede faceva capire che il vis-à-vis non era andato secondo i desiderata di Roma. “Con tutto il rispetto per Sua Santità, non abbiamo bisogno di un mediatore tra l’Ucraina e l’aggressore che ha sequestrato e occupato il nostro territorio”. Qualcosa è stato ottenuto – si lavorerà per riportare a casa i bambini – ma è evidente che quella breccia che qualcuno in Vaticano forse s’illudeva di aprire in una conversazione a quattr’occhi resta ben sigillata. 

 

Al Papa che donava un ramoscello d’ulivo all’ospite, questi rispondeva con un’icona della Madonna dipinta su quel che era un giubbotto antiproiettile. A rimarcare, insomma, una distanza che più ampia non si potrebbe avere. La Segreteria di stato è rimasta sempre abbottonata sul tema e il suo superiore, il cardinale Pietro Parolin, ha parlato solo quando richiesto e solo dopo che il Pontefice aveva rivelato davanti ai giornalisti che era in atto una missione segreta. Forse neppure Parolin s’illudeva che qualcosa potesse cambiare, di sicuro non riponeva troppe speranze il prefetto del dicastero per le Chiese orientali, mons. Claudio Gugerotti, già nunzio a Kyiv e convinto che la situazione sul terreno sia troppo incancrenita per poter far sperare in un rapido cessate il fuoco. La leadership ucraina non può, ora, accettare discorsi su tregue e fine dei combattimenti. Si è spinta troppo in là e fermarsi adesso significherebbe concedere un vantaggio – anche mediatico – ai russi che arrancano.

 

Ma Zelensky non può accettare una mediazione papale anche perché questa finirebbe per mettere, giocoforza sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito, perché da che mondo è mondo la pace si fa solo con il dialogo tra le Parti in contesa. Oppure, provocando il collasso dell’asse del Male, come accaduto con i regimi fascisti al termine della Seconda guerra mondiale: ma qui Putin ha alleati del calibro della Cina e una non irrilevante parte di mondo che concorda con la massima papale sulla “Nato che abbaia ai confini della Russia”. Kyiv, dopo Bucha e Mariupol, dopo le migliaia di giovani morti nei campi e nelle città, dopo la devastazione di un intero paese, non può sedersi a trattare con chi quell’ordalia ha determinato. E se non c’è il placet ucraino, vie terze non possono essere percorse. Zelensky l’ha twittato appena uscito dalla saletta dell’udienza: “Ho chiesto al Papa di condannare i crimini russi in Ucraina. Perché non può esserci uguaglianza tra la vittima e l’aggressore. Ho anche parlato della nostra formula per la pace come unica soluzione efficace per raggiungere una pace giusta. Ho proposto (al Papa) di aderirvi”.

 

Il tweet, molto più dei comunicati limati dai funzionari, spiega realmente quel che pensano a Kyiv del ruolo della Santa Sede rispetto alla crisi. Intanto, è la tesi ucraina, manca da un anno tre mesi una chiara condanna di Mosca. Secondo punto: non si può mettere sullo stesso piano chi ha sferrato l’attacco e chi l’ha subìto (il Papa non l’ha mai fatto, ma la percezione, a Kyiv, è questa). Terzo: anziché parlare di Nato, occidente, oriente e di cercare interlocuzioni con Kirill, non c’è altra soluzione che puntare tutto sulla vittoria ucraina e sulla resa incondizionata di Mosca. Alla fine, il Pontefice che doveva accogliere Zelensky dopo tre anni per proporre un barlume di soluzione al dramma in corso s’è visto elencare sulla propria scrivania un pacchetto di condizioni da prendere o lasciare, quasi fosse il discrimine per inserire il Vaticano nella lista degli amici o dei nemici. Semplificazione, si dirà. Ma è quanto certificato sabato scorso. Kyiv chiede che Roma recida ogni legame con Mosca, cosa che la Santa Sede non può fare dopo decenni di certosina opera messa in piedi proprio per stabilire canali efficaci di dialogo e contatto. Ma non lo vuole neppure fare, perché non ha alcuna intenzione di aggiungere la propria sedia allo schieramento occidentale che combatte la Russia.

 

Il Papa guarda alle cancellerie pensando ai popoli sofferenti, un po’ come fece Benedetto XV più di un secolo fa, quando s’appellò alle coscienze dei decisori politici davanti alla tragedia della inutile strage. Con risultati nulli. Benedetto XV era però un fine diplomatico cresciuto alla scuola del cardinale Rampolla, Francesco è più esuberante e meno affine ai protocolli dell’alta diplomazia. Alcuni suoi errori grossolani – dalla definizione a mezzo stampa di Kirill “chierichetto di Putin” alla banalizzante riduzione di ceceni e buriati a popoli caratterizzati da una innata brutalità, fino al teorizzare con qualche giornalista quella che poteva sembrare una sorta di giustificazione  all’azione del Cremlino – non hanno di certo aiutato a irrobustire né l’azione della Santa Sede né il prestigio come autorità terza agli occhi degli aggrediti. Uscire ora da quest’impasse risulta complicato e di certo non si può utilizzare un’improbabile sponda russa, men che meno “spirituale”, considerato il sostegno misticheggiante di Kirill alla guerra di Putin.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.